Patrimonio

Patrimonio

L’approccio alle problematiche connesse con la protezione del proprio patrimonio e con il cosiddetto “passaggio generazionale” è particolarmente delicato.

A fianco di problemi tecnici notevolmente complessi si pongono sempre aspetti che coinvolgono la sfera sentimentale, familiare ed emotiva della persona che si rivolge allo Studio.

L’approccio alle problematiche connesse con la protezione del proprio patrimonio e con il cosiddetto “passaggio generazionale” è particolarmente delicato.

A fianco di problemi tecnici notevolmente complessi, si pongono sempre aspetti che coinvolgono la sfera sentimentale, familiare ed emotiva della persona che si rivolge allo Studio.

Per questo motivo l’impostazione della consulenza deve tenere conto di tutte le sfaccettature della situazione prospettata e anche le possibili soluzioni non possono basarsi esclusivamente su valutazioni economiche.

Le operazioni da compiere sono molteplici, anche se le fasi, che di seguito rappresentiamo in successione concettuale, risultano spesso, di fatto, parzialmente sovrapposte.

In primo luogo occorre determinare con precisione chi è il reale Cliente. Non è raro, infatti, che chi si presenta in Studio non rappresenti solo o tanto se stesso, ma anche altri soggetti (ad esempio: uno dei coniugi che, tuttavia, “parla” – o ritiene di parlare –  anche a nome dell’altro; uno dei titolari di un’azienda che “parla” – o ritiene di parlare –  anche a nome della società; un figlio che, però, vuole indurre delle decisioni da parte di taluno dei propri genitori, ecc…).

L’aspetto fondamentale immediatamente successivo riguarda l’oggetto dell’incarico ovvero l’individuazione precisa di quale sia l’obiettivo finale (ad esempio: proteggere il patrimonio da possibili rischi di aggressioni da parte di terzi; trasferire il patrimonio ai figli minimizzando il costo fiscale e salvaguardando il proprio futuro personale; garantire la continuità e la sopravvivenza dell’azienda rispetto alla vita del (o dei) fondatori; garantire il trasferimento dell’azienda a quello dei figli che vi opera e il resto del patrimonio agli altri; o anche un mix di diversi obiettivi). Peraltro, talvolta, l’obiettivo originario deve essere modificato per tenere conto delle concrete situazioni riscontrate e dei vincoli di legge.

Lo sviluppo del punto precedente porta alla necessità di individuare tutti i portatori di interessi (per chi ama l’inglese: “stakeholders”) coinvolti, in misura più o meno rilevante, nelle ipotesi che si vanno profilando.

A questo punto diventa indispensabile l’approfondita indagine del quadro patrimoniale coinvolto: immobili, aziende, partecipazioni societarie, titoli, liquidità, ecc… Come detto questa indagine, talvolta, può portare alla modifica o alla ridefinizione degli obiettivi originari.

Sulla scorta delle indagini lo Studio potrà, anche con l’aiuto di altri professionisti individuati di concerto col Cliente (ad esempio: Notaio, Avvocato, Commercialista “storico”, ecc…) addivenire all’individuazione della soluzione migliore. In realtà, frequentemente, le soluzioni prospettate sono molteplici o, comunque, più di una, nel senso che nessuna ha solo aspetti positivi mentre tutte hanno lati positivi e lati negativi.

Per poter condurre il Cliente alla migliore tra le scelte possibili, in questa fase, lo Studio chiarirà a quest’ultimo, per ciascuna delle ipotesi formulate:

  • tutti i passi necessari;
  • tutti i costi, anche fiscali, dell’operazione, tenendo conto anche dei costi indiretti o virtuali;
  • tutti i pro e i contro.

E’, questa, la fase decisionale in cui il Cliente, sulla scorta di tutte le valutazioni effettuate assieme al Professionista, è in grado di prendere le proprie decisioni, nella consapevolezza di aver agito per il meglio, vagliando ogni ipotesi e ogni possibile conseguenza.

Una volta che il Cliente ha definitivamente deciso, lo Studio continuerà nella sua opera di assistenza accompagnandolo in quella che possiamo definire la fase “esecutiva”.

Questa consiste:

  • nell’accompagnare il Cliente in sede di comunicazione (o condivisione) della propria decisione ai vari soggetti interessati (eredi, management aziendale, altri dipendenti dell’azienda, istituti di credito, ecc…);
  • nel programmare temporalmente i singoli passi necessari per porre in essere le scelte effettuate;
  • nel predisporre atti e documenti necessari per il compimento di ogni singolo passo sino al raggiungimento completo dell’obiettivo.

In conclusione, l’intento dello Studio è mettere il Cliente in condizione di compiere le scelte migliori relativamente al proprio patrimonio per preservarlo nell’immediato e nel tempo, accompagnandolo, anche sotto il profilo psicologico ed emotivo, in ogni fase propedeutica, decisionale e, infine, esecutiva.

N.B = Lo Studio Gualerzi e Signorini offre, a chi voglia intraprendere un’attività di analisi della propria situazione patrimoniale nell’ottica di preservarne il valore dai rischi attuali o futuri, la consulenza iniziale di valutazione, che normalmente richiederà uno o due colloqui al massimo, in modo totalmente gratuito. Anche per l’ipotesi in cui il cliente, al termine delle valutazioni, decida di non proseguire oltre.

Chi fosse interessato, quindi, può chiedere, senza alcun impegno ulteriore, un appuntamento, anche in orari compatibili con l’attività nel frattempo svolta, telefonando in Studio al numero: 0376 925001 ovvero scrivendo all’indirizzo:  studio@gualerziesignorini.it

Come è noto, gli Italiani (assieme ai Giapponesi) sono un popolo di risparmiatori; tra i maggiori dei paesi industrializzati. In realtà questo, oggi, è meno vero che in passato essendo diminuita la quota di reddito risparmiata dagli Italiani dal circa 20% degli anni ‘90, al 15/16% degli inizi 2000, al 8/10% degli ultimi anni di crisi.

La diminuzione è dovuta a due fattori concomitanti:

  1. la crisi degli ultimi anni a causa della quale, a fronte della riduzione dei redditi subita da molte categorie sociali, le famiglie hanno diminuito i risparmi per riuscire a mantenere il più possibile costante il proprio tenore di vita;
  2. un cambiamento dell’atteggiamento psicologico con cui viene affrontata la vita sull’onda di una certa spinta dei media (film, tv, social, ecc…) ad andare nella direzione delle popolazioni anglosassoni notoriamente propense a privilegiare “l’oggi” rispetto “al domani”.

In ogni caso, anche in virtù dei grandi risparmi del passato, le famiglie italiane sono tra le prime al mondo per patrimonio posseduto; sia in valore assoluto che in rapporto ad altri indicatori, quali PIL, reddito pro-capite e debito pubblico.

E’ naturale quindi, che esse si pongano il problema di come salvaguardarlo, sia con riferimento al presente, sia guardando al futuro.

Le aree di attenzione di chi si trova a dover proteggere il proprio patrimonio familiare sono diverse.

Nelle pagine di questo sito ci limiteremo ad indagarne alcune, ovvero quelle in cui lo Studio Gualerzi e Signorini si pone come interlocutore e partner di consulenza.

Stiamo parlando di:

  1. salvaguardia del patrimonio dalle brame del fisco in un’ottica successoria;
  2. salvaguardia del patrimonio nel passaggio generazionale;
  3. salvaguardia del patrimonio dalle possibili aggressioni di creditori o altri soggetti terzi.

Non ci occuperemo quindi:

  • di strumenti finanziari di risparmio e/o di investimento;
  • di scelte di investimento di ogni genere.

Vedremo che gli strumenti a disposizione per proteggere il patrimonio dai rischi e nei momenti esposti sopra ai numeri da 1) a 3) sono molteplici e che, spesso, lo stesso strumento giuridico si presta a risolvere problemi trasversali alle diverse aree di attenzione pur essendo, quasi sempre, più orientato in un senso anziché in un altro.

Di conseguenza, dopo un’analisi, anche storica, della situazione fiscale in Italia in ambito successorio, parleremo di:

  • successione legittima, testamento e donazione;
  • usufrutto e nuda proprietà;
  • passaggio generazionale in azienda;
  • patto di famiglia;
  • legge sul dopo di noi;
  • fondo patrimoniale;
  • trust;
  • atti di destinazione;
  • utilizzo di polizze assicurative.

Naturalmente lo scopo di queste pagine è risvegliare l’interesse sulle problematiche esposte e fornire una carrellata rapida e sintetica degli strumenti a disposizione, ma ogni situazione va vista a sé, perché ogni situazione è un “unicum” rispetto:

  1. alla composizione del patrimonio da tutelare,
  2. all’insieme degli interessi che si vuole tutelare,

alle possibili specifiche problematicità.

Fa parte dell’istinto naturale dell’individuo cercare, in ogni momento, di porre in essere tutte le azioni possibili a garanzia del futuro proprio e dei propri cari.

Tuttavia pochi individui, specialmente se di età non molto avanzata, si spingono a valutare l’ipotesi di una propria dipartita, delle conseguenze che essa avrebbe se non opportunamente “governata” e delle conseguenti possibili azioni da porre in essere.

Entra qui in gioco l’atteggiamento individuale verso la morte che, nella maggioranza dei casi, può configurarsi in uno dei seguenti modi:

  1. il pensiero della morte mette paura e angoscia e quindi si cerca di non pensarci per evitare questi stati d’animo negativi che portano dolore;
  2. si sfugge al pensiero della morte pensando, in questo modo, di sfuggire alla morte stessa;
  3. ci si sente invulnerabili e immortali e ci si illude che la morte sia una cosa che riguarda solo gli altri;
  4. si è metabolizzato “l’evento morte” come inevitabile e parte della vita stessa e, di conseguenza, lo si affronta come qualsiasi altro fenomeno naturale.

I soggetti che si pongono verso la morte come sintetizzato ai punti da 1) a 3), se non sono costretti da spinte esterne o situazioni particolari, difficilmente si pongono, con riguardo a se stessi, il problema delle conseguenze di un simile evento, specie se improvviso, sull’ambiente che li circonda. Per “ambiente”, in questa sede, ci riferiamo sicuramente ai propri familiari/eredi ma anche: ad altre persone legate affettivamente, alla propria azienda, ai propri dipendenti, ai propri amici, ecc…

Solamente i soggetti che si pongono verso la morte come sintetizzato al punto 4), pur se non costretti da spinte o eventi esterni, affrontano senza problemi l’argomento e cercano di attuare tutte le misure che ritengono opportune a salvaguardia del proprio “ambiente” come sopra definito.

Invece, prescindendo dall’atteggiamento psicologico e affrontando l’argomento con razionalità, chiunque si dovrebbe rivolgere le seguenti domande:

  1. mi devo porre il problema?
  2. con quali finalità?
  3. quali azioni dovrei intraprendere?
  4. le eventuali decisioni prese escludono che il problema vada affrontato anche successivamente?
  1. La risposta al punto a), in realtà, dovrebbe giungere spontanea alla luce di quanto detto sopra: il momento in cui affrontare il tema, per quanto scabroso, della propria dipartita, non dipende dall’età (per quanto le probabilità siano diverse, la possibilità esiste in qualsiasi momento) ma dipende dalla propria situazione. Ovvero il momento è quando l’accadimento, oltre agli aspetti squisitamente sentimentali, arrecherebbe traumi, in ispecie in ambito economico, al proprio “ambiente”. E quindi, esemplificando, è il momento di affrontare l’argomento “propria morte”:
  2. quando il proprio reddito è fondamentale per il tenore di vita dei propri cari;
  3. quando si ha la responsabilità di un’azienda (o altra struttura economica) che ne avrebbe conseguenze negative o, addirittura, disastrose (vedi “Passaggio generazionale”);
  4. quando è presumibile che si scatenerebbero degli accesi contrasti tra i propri eredi;
  5. quando le previsioni di legge in tema di assegnazione dell’eredità vanno in una direzione diversa da quanto sarebbe desiderabile;
  6. quando vi sia il timore di un pesante inasprimento della tassazione (motivazione oggi di estrema attualità; v. pagine: “L’Italia è un paradiso fiscale?” e “L’Italia non è sempre stata un paradiso fiscale”)
  • Ma anche le finalità, a questo punto, dovrebbero essere evidenti. Le azioni da porre in essere dovrebbero essere finalizzate ad attenuare, se non risolvere completamente, i problemi che si può presumere si presenterebbero nel caso paventato, in assenza di intervento preventivo.
  • Le azioni da intraprendere vanno viste caso per caso e individuate all’interno di quanto previsto dall’ordinamento. Partendo dalle più semplici e consuete possiamo avere:
  • testamento e/o donazione;
  • fondo patrimoniale;
  • patto di famiglia;
  • trust;
  • atti di destinazione;
  • polizze assicurative.
  • Infine, il soggetto che affronta il tema, deve avere la consapevolezza che l’analisi della propria situazione e l’individuazione di eventuali azioni da intraprendere, va periodicamente ripetuta in relazione alle modifiche che può subire nel tempo la situazione stessa (sia a livello personale – modifica della compagine degli eredi – sia a livello economico – significative modifiche nel proprio patrimonio -).

L’analisi della situazione personale del cliente (familiare ed economica), la scelta degli strumenti sopra accennati al punto c) a seconda delle finalità che ci si pone, anche variamente mixati tra di loro, analizzando i pro e i contro di ciascuno e svolgendo ogni altra considerazione relativa, anche di carattere umano e personale, costituisce una delle aree di specializzazione del nostro Studio di consulenza.

In questo momento storico, tra le motivazioni sopra esposte, alcune valide universalmente e in ogni tempo, assume preminente importanza l’opportunità di sfruttare una situazione fiscale particolarmente favorevole destinata a modificarsi in peggio in tempi non quantificabili ma, forse, non troppo remoti.

Sembra una frase provocatoria e invece, quando parliamo di successione, è proprio così.

Se nella fiscalità generale l’Italia si colloca ai primi posti europei e mondiali per carico fiscale imposto ai contribuenti, quando si parla di donazioni o di successioni (le regole generali e le aliquote sono analoghe) invece, il nostro Paese può considerarsi a pieno titolo un paradiso fiscale.

Fino a quando? Già nel 2015, il gruppo parlamentare di “SEL”, aveva presentato una proposta di legge volta a un pesante inasprimento dell’imposta e lo stesso Governo, nella primavera del 2016, aveva annunciato di voler mettere mano alla normativa, ovviamente, con l’ottica di incrementare le entrate fiscali dello Stato.

Successivamente, qualche esponente dei “5 Stelle” si è spinto ad auspicare un’acquisizione da parte dello Stato, a titolo di imposta, del 50% (!!!) del patrimonio caduto in successione.

Adesso il tema è un po’ sopito, ma può sempre tornare d’attualità anche per le spinte della UE, nei cui paesi l’analoga normativa è assi più pesante, che mal tollera questa situazione e la contemporanea eccessiva entità del debito pubblico italiano.

Ma quali sono le aliquote attuali dell’imposta di successione (valide anche per l’ipotesi della donazione)? Di seguito una tabella riassuntiva (ricordando che gli “affini” sono i parenti del coniuge e che, ai sensi della Legge 76/2016, il partner all’interno dell’unione civile ha gli stessi diritti del coniuge):

Eredi (o beneficiari nella donazione)AliquotaFranchigia
Coniuge
 
Parenti in linea retta (figli, nipoti, pronipoti)
4% 
Euro 1.000.000 cadauno
Fratelli e sorelle6% 
Euro 100.000 cadauno
Parenti fino al 4° grado (figli del fratello o sorella, cugini)
Affini in linea retta (genero, nuora, suoceri, ecc…)
Affini in linea collaterale
6%Nessuna
 
Altri
8%Nessuna

Rileviamo in primo luogo che si tratta di un’imposta dall’applicazione molto semplice in quanto:

  1. non prevede una tassazione sul patrimonio globale ma esclusivamente in capo al singolo erede per la sua quota di eredità;
  2. non prevede aliquote differenziate in relazione all’importo dell’eredità ricevuta (o meglio: prevede “un’aliquota zero” per valori entro la franchigia e un’aliquota unica, come da tabella sopra stante, per la parte eccedente).

Facciamo qualche esempio (valido anche, a parità di valori e di gradi di parentela, in ipotesi di donazione).

  1. Se un soggetto, morendo, lascia al coniuge e all’unico figlio, in parti uguali, un patrimonio complessivo inferiore o uguale a euro 2.000.000, i riceventi non pagheranno nulla essendo il valore interamente coperto dalla franchigia individuale di euro 1.000.000.
  2. Se un soggetto, vedovo o divorziato, morendo, lascia l’intero proprio patrimonio di euro 4.500.000 ai 3 figli in parti uguali, questi pagheranno un’imposta di (soli!) euro 20.000 cadauno, quindi euro 60.000 in tutto. Questo perché, ogni figlio, ricevendo un valore di euro 1.500.000, sarà tassato solamente su un’imponibile di euro 500.000 (quota eccedente la franchigia di euro 1.000.000) al 4%. (Lo stesso accadrebbe se i riceventi fossero il coniuge e i 2 figli)
  3. Se un soggetto, senza coniuge né figli, morendo, lascia il proprio patrimonio di euro 1.000.000, metà al fratello e metà a persona non legata da vincoli di parentela o coniugio (ad esempio la propria compagna), il fratello, al netto della franchigia di euro 100.000, pagherà un’imposta del 6% su euro 400.000 e quindi euro 24.000; mentre la compagna pagherà l’8% di euro 500.000 e quindi euro 40.000. La tassazione totale, di conseguenza, diventa di euro 64.000.

Per capire la portata delle affermazioni precedenti, senza entrare nel dettaglio delle legislazioni degli altri Stati europei, vediamo cosa succederebbe se gli stessi casi accadessero nei principali di essi.

  1. In Gran Bretagna la legislazione è molto complessa e diversa tra successioni e donazioni. Inoltre occorre considerare che questi esempi sono in euro e i valori potrebbero variare nel tempo in relazione all’effetto cambio tra sterlina ed euro. Comunque l’aliquota standard per le successioni in Gran Bretagna è del 40% (del 20% per le donazioni) e c’è una franchigia (unica sull’intera massa e non per soggetto) di circa euro 500.000. Quindi, approssimativamente: nel caso 1), l’imposta dovuta potrebbe arrivare a circa euro 600.000; nel caso 2) a circa euro 1.600.000; nel caso 3) a circa euro 200.000.
  2. In Germania la normativa è molto più simile alla nostra, con unitarietà tra successioni e donazioni, aliquote che variano in funzione dei gradi di parentela (i possibili beneficiari sono divisi in tre classi), però le aliquote variano, progressivamente, anche in funzione del patrimonio caduto in successione o donato (per i parenti stretti l’aliquota va dal 7% al 30% dei patrimoni più cospicui, mentre per i non parenti va dal 30% al 50%!) e vi è una franchigia (unica sull’intera massa e non per soggetto che può essere al massimo, di euro 500.000) che varia, anch’essa, in relazione al grado di parentela dei beneficiari. Approssimativamente: nel caso 1), l’imposta sarebbe di circa euro 300.000; nel caso 2) di euro 780.000; nel caso 3) di euro 240.000.
  3. In Francia la normativa è molto simile a quella tedesca con unitarietà tra successioni e donazioni, aliquote che variano in funzione dei gradi di parentela (i possibili beneficiari sono divisi in tre classi mentre il coniuge ha una disciplina a se stante), con le aliquote che variano, progressivamente, anche in funzione del patrimonio caduto in successione o donato (per il coniuge, i discendenti e gli ascendenti va dal 5% al 45%!!, per fratelli e sorelle dal 35% al 45%, mentre per i non parenti va dal 55% al 60%!) e franchigie (diversificate tra donazioni e successioni e a seconda dei gradi di parentela), ma che al massimo arrivano a circa euro 180.000 nel caso di donazioni tra coniugi. Approssimativamente: nel caso 1), l’imposta sarebbe di circa euro 500.000; nel caso 2), di euro 1.600.000; nel caso 3) di euro 520.000.

Riepilogando, in ipotesi di successione e con le approssimazioni sopra indicate, il carico fiscale totale dovuto dagli eredi, nei tre casi ipotizzati, sarebbe di euro:

ItaliaGran BretagnaGermaniaFrancia
Caso 1Zero600.000300.000500.000
Caso 260.0001.600.000780.0001.600.000
Caso 364.000200.000240.000520.000

Agli importi sopra indicati, per quanto riguarda l’Italia, occorre aggiungere un 3% di imposte ipotecarie e catastali sul valore di eventuali immobili che costituiscano parte dell’eredità. Quindi nessuna aggiunta se l’eredità è costituita da partecipazioni societarie, beni mobili o altro; un’aggiunta del 3% sul valore degli immobili se ve ne sono.

Il quadro tuttavia non cambia. Riprendiamo, ad esempio, il caso 2. Se l’intero valore di euro 4.500.000 fosse costituito da patrimonio immobiliare le imposte appena citate comporterebbero un esborso complessivo di euro 135.000, da sommare agli euro 60.000 di imposta di successione con un totale di euro 195.000. Cifra non trascurabile ma ancora estremamente inferiore a quella dovuta negli altri Paesi per la sola imposta di successione.

Inoltre, anche negli altri paesi, pur con diversificazioni notevoli, vi possono essere ulteriori imposte (oltre a quella di successione) sui trasferimenti.

La riforma del catasto.

Ma vi è un altro motivo per il quale l’Italia è un paradiso fiscale.

In sede di successione (o donazione) i valori di terreni e immobili assunti ai fini del calcolo sono i valori catastali ovvero: la rendita catastale per i fabbricati o il reddito dominicale per i terreni, moltiplicati per determinati coefficienti stabiliti dalla Legge.

Ora, è notorio che queste rendite (e di conseguenza questi valori) risultano normalmente ampiamente sottostimati rispetto ai valori reali di mercato e questo è vero persino in questo momento storico che vede i prezzi dei terreni e, soprattutto, dei fabbricati, particolarmente depressi.

In particolare, a subire i maggiori aumenti dei valori catastali, dovrebbero essere gli immobili nelle grandi città, nei centri storici, nelle aree che più godono di pubblici servizi, ecc…

Come per l’imposta di successione, anche la riforma del catasto non è ferma per motivi tecnici, bensì per motivi politici. Infatti, pur accettando il principio stabilito dall’ultimo Disegno di Legge di invarianza di gettito per lo Stato, questa riforma, comunque, creerebbe una grossa redistribuzione di reddito tra categorie sociali agendo a livello di imposte locali, di ISEE, ecc…

E inoltre, chi è disposto a scommettere sull’invarianza di gettito e non pensa, invece, che l’occasione sarà ghiotta per il Fisco per aumentare le entrate?

Tuttavia la riforma è ritenuta da tutti universalmente necessaria essendo la situazione attuale basata sulla riforma del Catasto operata nel 1939 e quindi, ormai, completamente avulsa dalla realtà.

Conclusioni

Da questa breve rappresentazione ed esemplificazione dovrebbe risultare assolutamente evidente l’attuale situazione di vero e proprio “paradiso fiscale” dell’Italia in campo successorio.

La conseguenza è che chiunque, anche non in età avanzata, disponga di un patrimonio non trascurabile dovrebbe porsi SUBITO il problema della propria successione. Esistono infatti strumenti per sfruttare l’attuale situazione estremamente favorevole pur contemperando le opportunità fiscali con le esigenze di tutela personale attuale e futura.

Con le normative di oggi, quando parliamo di successione, l’Italia è un paradiso fiscale. Ma è sempre stato così?

NO! L’attuale impianto normativo è frutto di due interventi successivi che hanno modificato una situazione che, in precedenza, era sostanzialmente stabile da decenni (in sostanza dal 1972). Questi due interventi, non casualmente, sono avvenuti in concomitanza con le elezioni politiche nazionali del 2001 e del 2006.

Ma facciamo un rapido excursus storico.

L’imposizione di tributi sull’eredità, in Italia, risale ai tempi dell’antica Roma. Ad esempio, già sotto Augusto, nel 7 d.C., esisteva la vicesima ereditatum.  La legge, nello stabilire che il testamento doveva essere aperto davanti all’ufficio che si occupava della riscossione dell’imposta, stabiliva anche che allo Stato fosse devoluto il 5% (ventesima – vicesima – parte) del patrimonio ereditario.

L’imposta, nelle forme più diverse, attraversò l’epoca dell’impero romano e del medio evo, interessando tutti gli stati europei fino al ‘700, quando in Francia le fu data un’impostazione più razionale, che può essere considerata l’antesignana delle legislazioni dell’epoca moderna.

Anche l’Italia unita ebbe una sua legge sin dal 1862, ricalcata su quella piemontese che era la più esosa di tutte (tanto che fu corretta per renderla meno onerosa nel 1866).

Tra ‘800 e ‘900, sull’onda delle idee liberali e socialiste del tempo, che ritenevano che l’imposta potesse <<provvedere a regolare in modo più equo la ricchezza privata>> (così Giulio Alessio, Accademico dei Lincei, professore di scienza delle finanze, più volte ministro tra la fine del 1800 e gli inizi del 1900) si giunse a ipotizzare che, in caso di mero godimento dei beni ereditati, col susseguirsi di 3 successioni (e quindi di 3 generazioni) l’intero patrimonio dovesse essere acquisito dallo Stato (così Eugenio Rignano, noto filosofo del tempo).

Un cambio deciso di rotta, in Italia, avvenne nel 1923 quando il governo fascista ritenne che l’imposta, se troppo onerosa, fosse un ostacolo alla creazione di ricchezza (anziché un correttivo in senso equitativo) e, inoltre che andasse contro <<all’istituto famigliare, anche nel suo elemento patrimoniale>>.

Dal punto di vista macroeconomico, l’imposta, che rappresentava lo 0,2/0,3% del PIL agli inizi del ‘900, passò dopo i correttivi dell’epoca fascista, a meno dello 0,1% mentre sul totale delle entrate dello Stato passò dal 2,0/2,5% a meno dell’1,0%.

Dopo la seconda guerra mondiale l’impianto normativo di fondo rimase quello fascista, benché un incremento delle aliquote, frutto delle necessità della ricostruzione e del quadro politico dell’epoca, abbia portato a un discreto aumento del gettito

Veniamo all’epoca moderna.

Nell’ambito della generale riforma dell’intero sistema tributario impostata alla fine degli anni ’60 del ‘900 e realizzata nei primi anni ’70 con i contributi fondamentali di Luigi Preti e Bruno Visentini, in parte anche per allineare l’Italia col resto d’Europa (vedi sostituzione dell’IGE con l’IVA), anche l’imposta sulle successioni e donazioni venne profondamente riformata nel 1972.

L’impianto del 1972, che è quello di cui trattiamo in questa pagina del sito, rimase stabile per circa 30 anni (sino al 2001). Alla fine degli anni ’90, tuttavia, a causa della modestia del gettito (inferiore allo 0,1% del PIL e all’1% delle entrate), specialmente se raffrontato agli elevati costi di gestione del tributo, si sviluppò nuovamente un intenso dibattito che trovò molti fautori di una sua abrogazione totale come, peraltro, fautori di un pesante inasprimento.

Per cercare di mediare tra le opposte visioni, agli inizi di questo secolo, il Governo di centro-sinistra di allora, con la Legge 342/2000 rimodulò gli scaglioni così da attenuare il carico impositivo, in particolare nel caso di patrimoni non particolarmente elevati.

Delle istanze più radicali, invece, si fece interprete il Governo Berlusconi (che nel frattempo aveva vinto le elezioni), il quale, anche per adempiere a un preciso impegno elettorale, con la Legge 383/2001, ha totalmente abrogato le imposte di successione e donazione, a decorrere dallo stesso 2001.

Infine, in parziale (ma molto morbida) correzione di tale scelta, il Governo Prodi, anche in questo caso per adempiere ad analogo impegno elettorale, con la Legge 286/2006, in vigore dal 2007, le ha reintrodotte benché nell’attuale, eccezionalmente moderata, configurazione.

Poiché un ritorno a una situazione, per così dire “più normale”, è scontato, resta solo da vedere quando avverrà, è sicuramente interessante vedere quale fosse l’impianto normativo previsto per il 2001 ovvero dopo la revisione moderativa dovuta alla L. 342/2000, fino alla (temporanea) abrogazione dell’istituto avvenuta nel 2001.

Inutile andare a indagare sull’evoluzione nei decenni immediatamente precedenti. Sarà sufficiente evidenziare che le modifiche erano quasi esclusivamente incentrate sull’adeguamento dei valori previsti (franchigie, scaglioni, ecc…) alla perdita di valore nel tempo della moneta, che allora era la Lira.

Ricordiamo infatti, soprattutto a beneficio dei più giovani lettori, che, sino alla metà degli anni novanta del ventesimo secolo, l’Italia era caratterizzata da una forte spinta inflazionistica, iniziata nei primi anni settanta col cosiddetto shock petrolifero e durata più di vent’anni.

In quei due decenni circa, l’inflazione annua fu praticamente sempre a due cifre, per molti anni attorno al 20%, con una punta massima nel 1980 quando raggiunse il 21,2%.

La previsione normativa con le modifiche di cui alla L.342/2000.

Al di là delle cifre estremamente più elevate, la normativa di allora aveva due sostanziali differenze rispetto all’impianto normativo attuale.

In primo luogo, per tutte le categorie di possibili eredi (da coniuge e figli, agli estranei) erano previste aliquote crescenti a scaglioni. Un meccanismo simile a quello da sempre in essere per l’IRPEF (e peraltro in vigore negli altri Paesi europei; v. pagina: “L’Italia è un paradiso fiscale?) per cui, per ogni scaglione di base imponibile è prevista una aliquota, mentre sulla parte eccedente si applica un’aliquota maggiore, sino alla saturazione dello scaglione e così via sull’ulteriore eccedenza.

L’altra grande differenza consisteva nella separazione dell’imposta in due parti:

  • la parte A, applicata sull’intera eredità e potenzialmente dovuta (franchigie a parte) da qualsiasi categoria di eredi, anche i più vicini come coniuge e figli;
  • la parte B, da sommare alla parte A, sulla quota di eredità di ciascun erede; dall’imposta prevista dalla parte B erano esclusi: coniuge, figli, ascendenti e discendenti in linea retta.

Nella Tabella seguente sono riepilogati: scaglioni e aliquote di tassazione sia per la parte A che per la parte B.

(N.B. = gli scaglioni, allora erano ovviamente espressi in Lire ma, nella Tabella, per velocità di comprensione, vengono espressi anche in euro).

Riprendiamo gli esempi della pagina del sito intitolata “L’Italia è un paradiso fiscale”, sia per capire il meccanismo allora vigente, sia per rilevare quanto fosse estremamente più oneroso.

  1. Tizio muore lasciando un patrimonio di (euro 2.000.000 ovvero) lire 3.872.540.000 in parti uguali alla moglie e al figlio. In questo caso, secondo la normativa vigente sino al 2001, si sarebbe resa dovuta solo l’imposta di cui alla parte A della tabella (a coniuge e figli non si applicava la B) e si sarebbe calcolato in questo modo: esenti i primi 500.000.000 (franchigia), il 10% dei 300.000.000 dello scaglione da 500.000.000 a 800.000.000 (quindi 30.000.000), il 15% dei 700.000.000 dello scaglione da 800.000.000 a 1.500.000.000 (quindi 105.000.000), il 22% dei 1.500.000.000 da 1.500.000.000 a 3.000.000.000 (quindi 330.000.000), il 27% delle 872.540.000 lire, da 3.000.000.000 a 3.872.540.000, valore complessivo dell’eredità (quindi 235.585.800). In totale, quindi, l’imposta dovuta sarebbe stata di lire 700.585.800 ovvero, convertito in euro, su un’eredità di totali euro 2.000.000, l’imposta dovuta sarebbe stata di euro 361.822, con un carico fiscale medio di oltre il 18%!!!, pur essendo unici eredi la moglie e il figlio! (E’ appena il caso di rilevare che, essendo compresa nella franchigia personale di euro 1.000.000, la stessa situazione, oggi, sarebbe totalmente detassata!!).
  2. Caio, vedovo o divorziato, morendo, lascia l’intero proprio patrimonio di (euro 4.500.000 ovvero) lire 8.713.215.000 ai 3 figli in parti uguali. Anche in questo caso, secondo la normativa vigente sino al 2001, si sarebbe resa dovuta solo l’imposta di cui alla parte A della tabella (ai figli non si applicava la B) e si sarebbe calcolato in questo modo: esenti i primi 500.000.000 (franchigia), il 10% dei 300.000.000 dello scaglione da 500.000.000 a 800.000.000 (quindi 30.000.000), il 15% dei 700.000.000 dello scaglione da 800.000.000 a 1.500.000.000 (quindi 105.000.000), il 22% dei 1.500.000.000 da 1.500.000.000 a 3.000.000.000 (quindi 330.000.000), il 27% delle 5.713.215.000 lire, da 3.000.000.000 a 8.713.215.000, valore complessivo dell’eredità (quindi 1.542.568.050). In totale, quindi, l’imposta dovuta sarebbe stata di lire 2.007.568.050 ovvero, convertito in euro, su un’eredità di totali euro 4.500.000, l’imposta dovuta sarebbe stata di euro 1.036.822, con un carico fiscale medio di oltre il 23%!!!, pur essendo unici eredi la moglie e il figlio! (E’ appena il caso di rilevare che, essendo tassata, al 4% fisso, solo la quota eccedente la franchigia personale di euro 1.000.000, la stessa situazione, oggi, avrebbe un carico fiscale di euro 60.000. Ribadiamo 60.000 contro 1.036.822!!).
  3. Sempronio, senza coniuge né figli, morendo, lascia il proprio patrimonio di (euro 1.000.000 ovvero) lire 1.936.270.000, metà al fratello e metà a persona non legata da vincoli di parentela o coniugio (ad esempio la propria compagna). In questo caso, secondo la normativa vigente sino al 2001, si sarebbe resa dovuta sia l’imposta di cui alla parte A della tabella che quella di cui alla parte B e si sarebbe calcolato in questo modo:
    1. Parte A della tabella: esenti i primi 500.000.000 (franchigia), il 10% dei 300.000.000 dello scaglione da 500.000.000 a 800.000.000 (quindi 30.000.000), il 15% dei 700.000.000 dello scaglione da 800.000.000 a 1.500.000.000 (quindi 105.000.000), il 22% dei 436.270.000 da 1.500.000.000 a 1.936.270.000, valore complessivo dell’eredità valore complessivo dell’eredità (quindi 95.979.400). In totale, quindi, per la parte A, l’imposta dovuta sarebbe stata di lire 230.979.400 (da dividersi in parti uguali di lire 115.489.700 cadauno, tra i due eredi);
    1. Parte B per il fratello (valore quota eredità lire 968.135.000): esenti i primi 100.000.000 (franchigia), il 3% dei 150.000.000 dello scaglione da 100.000.000 a 250.000.000 (quindi 4.500.000), il 6% dei 100.000.000 dello scaglione da 250.000.000 a 350.000.000 (quindi 6.000.000), il 10% dei 150.000.000 da 350.000.000 a 500.000.000 (quindi 15.000.000), il 15%  dei 300.000.000 dello scaglione da 500.000.000 a 800.000.000 (quindi 45.000.000)  e, infine il 20% di 168.135.000, da 800.000.000 a 968.135.000, valore complessivo della quota di eredità (quindi 33.627.000). In totale, quindi, per la parte B, l’imposta dovuta dal fratello sarebbe stata di lire 104.127.000;
    1. Parte B per la compagna (valore quota eredità lire 968.135.000): esenti i primi 10.000.000 (franchigia), il 6% dei 90.000.000 dello scaglione da 10.000.000 a 100.000.000 (quindi 5.400.000), l’8% dei 150.000.000 dello scaglione da 100.000.000 a 250.000.000 (quindi 12.000.000), il 12% dei 100.000.000 dello scaglione da 250.000.000 a 350.000.000 (quindi 12.000.000), il 18% dei 150.000.000 da 350.000.000 a 500.000.000 (quindi 27.000.000), il 23%  dei 300.000.000 dello scaglione da 500.000.000 a 800.000.000 (quindi 69.000.000)  e, infine il 28% di 168.135.000, da 800.000.000 a 968.135.000, valore complessivo della quota di eredità (quindi 47.077.800). In totale, quindi, per la parte B, l’imposta dovuta dalla compagna sarebbe stata di lire 172.477.800;
    1. Riepilogando:
      1. il fratello avrebbe pagato lire 115.489.700 + 104.127.000 = 219.616.700 su una quota di eredità di lire 968.135.000, ovvero, convertito in euro, su una quota di eredità di totali euro 500.000, l’imposta dovuta sarebbe stata di euro 113.423, con un carico fiscale medio del 23% circa;
      1. la compagna avrebbe pagato lire 115.489.700 + 172.477.800 = 287.967.500 su una quota di eredità di lire 968.135.000, ovvero, convertito in euro, su una quota di eredità di totali euro 500.000, l’imposta dovuta sarebbe stata di euro 148.723, con un carico fiscale medio del 30% circa.

E’ appena il caso di rilevare che, la stessa situazione, oggi, avrebbe un carico fiscale complessivo di euro 64.000. 64.000 contro 262.146.

A questo punto, riprendiamo la tabella che abbiamo presentato nella pagina del sito denominata “L’Italia è un paradiso fiscale” aggiungendo la colonna “Italia ante 2001”.

Italia (oggi)Italia (ante 2001)Gran BretagnaGermaniaFrancia
Caso 1Zero361.822600.000300.000500.000
Caso 260.0001.036.8221.600.000780.0001.600.000
Caso 364.000262.146200.000240.000520.000

Conclusioni

Pure da questa breve esemplificazione “storica” dovrebbe risultare assolutamente evidente l’attuale situazione di vero e proprio “paradiso fiscale” dell’Italia in campo successorio, a differenza anche, semplicemente, di un recente passato.

La conseguenza è che chiunque, anche non in età avanzata, disponga di un patrimonio non trascurabile dovrebbe porsi ora il problema della propria successione. Esistono infatti strumenti per sfruttare l’attuale situazione estremamente favorevole pur contemperando le opportunità fiscali con le esigenze di tutela personale attuale e futura.

Il tema del destino del proprio patrimonio in relazione all’inevitabile fine della vita è talmente importante e storicamente sentito dalle persone che, oltre a un accenno anche a livello costituzionale (l’ultimo comma dell’art.42 della Costituzione recita: <<La legge stabilisce le norme ed i limiti della successione legittima e testamentaria e i diritti dello Stato sulle eredità>>) occupa un intero libro, il secondo, dei sei di cui è composto il Codice Civile.

Gli articoli vanno dal 456 all’809, ma in realtà in molte altre norme codicistiche vi sono richiami alla materia, e disciplinano una casistica estremamente articolata e complessa, suggerita dall’esperienza di secoli se non di millenni.

In questa sede, pertanto, dovremo limitarci a una rapidissima sintesi, con qualche approfondimento esclusivamente sui punti che ci interessano per altre pagine di questo sito.

La successione legittima.

Viene definita successione legittima quella in cui il defunto non ha lasciato un testamento, oppure questo è dichiarato invalido o, infine, dispone solo per una parte dei beni.

In questo caso, a seconda di quali siano i “successibili” effettivamente presenti, la legge si premura di stabilire a chi e in che percentuale debba essere devoluta l’eredità.

I “successibili”, cioè coloro che possono concorrere nella successione, sono (art.565 c.c.):

  • il coniuge (ai sensi della Legge 76/2016, il partner all’interno dell’unione civile ha gli stessi diritti del coniuge);
  • i discendenti (figli, nipoti, pronipoti; nota bene: figli legittimi, illegittimi, adottivi, ecc… hanno tutti gli stessi diritti);
  • gli ascendenti (genitori, nonni, bisnonni…);
  • i collaterali (fratelli e sorelle);
  • gli altri parenti entro il sesto grado (nipoti “ex fratre”, cugini, ecc…);
  • e infine lo Stato.

Gli articoli da 566 a 586 stabiliscono la percentuale che spetta a ciascuno nelle varie situazioni con alcune regole generali:

  • la presenza di discendenti esclude dall’eredità ascendenti e collaterali;
  • l’assenza di discendenti fa concorrere col coniuge anche gli ascendenti e i collaterali (anche se con percentuali minori);
  • se sono eredi il coniuge e un figlio, l’eredità si divide in parti uguali;
  • se oltre al coniuge vi sono più figli, al coniuge va un terzo e i due terzi ai figli in parti uguali (qualunque sia il numero dei figli);
  • solo in caso di assenza di coniuge, discendenti, ascendenti e collaterali concorrono gli altri parenti entro il sesto grado;
  • solo in caso di assenza anche di questi ultimi l’eredità va allo Stato.

Successione testamentaria.

Chiunque sia “capace” (ovvero maggiorenne, non interdetto per infermità mentale e in possesso delle proprie capacità di intendere e volere) può disporre dei propri beni, in tutto o in parte, per quando avrà cessato di vivere, per mezzo di un atto denominato “testamento”. Il soggetto che dà disposizioni sui propri beni a mezzo di “testamento” è detto “testatore”.

Il testamento è un atto sempre revocabile dal testatore che può, in ogni momento, apportarvi modifiche, annullarlo o sostituirlo.

Riguardo alla forma il testamento può essere:

  1. redatto per atto notarile e in tal caso:
    1. può essere pubblico: redatto dal notaio, sulla base delle volontà del testatore e sottoscritto da quest’ultimo in presenza di due testimoni (la definizione non tragga in inganno, non vi è alcuna pubblicità del testamento presso terzi; neppure ai parenti direttamente interessati a meno che sia il testatore stessoa volerlo);
    1. può essere segreto: redatto dal testatore, anche con mezzi meccanici o da altri per suo conto e consegnato al notaio che si limita a sigillarlo e a raccogliere, in presenza di due testimoni, la dichiarazione del testatore del fatto che quanto consegnato sia effettivamente il proprio testamento;
  2. olografo: ovvero scritto, datato e sottoscritto, per intero, dal testatore di proprio pugno (cioè interamente a mano, senza uso di macchine per scrivere, computer o altro).

Con il testamento, il testatore, può:

  1. stabilire quali beni spettino a quali eredi operando già, in sostanza, in tutto o in parte, la divisione;
  2. chiamare all’eredità soggetti, anche totalmente estranei, che non riceverebbero nulla in caso di successione legittima.

Tuttavia, il potere di disporre del testatore NON è illimitato in quanto vi sono dei soggetti, definiti “legittimari” (art.536 c.c.) ai quali, comunque, è riservata una quota dell’eredità.

Sono legittimari:

  1. il coniuge;
  2. i figli (ovvero i loro discendenti nel caso che i figli siano morti in precedenza);
  3. gli ascendenti.

Rispetto alla più ampia categoria dei “successibili”, non sono quindi legittimari e, di conseguenza, non vi è alcuna riserva a loro favore: i collaterali, gli altri parenti di qualunque grado e lo Stato.

In sostanza, a parte i casi di indegnità previsti dall’art.463 c.c. (che esclude dall’eredità coloro che si siano macchiati di crimini particolarmente gravi nei confronti del testatore o del suo coniuge o dei suoi discendenti o ascendenti), nessuno può “diseredare” i legittimari (le affermazioni in senso opposto da parte di qualche protagonista di film o serie televisive, normalmente dipendono dal fatto che questi sono di produzione e ambientazione estera).

Ovvero, a seconda della “qualità” e della “quantità” dei legittimari, il testatore deve riservare ad essi una quota variabile del proprio patrimonio; la quota residua, di cui il testatore può disporre a piacimento, si chiama “quota disponibile”.

Così, ad esempio:

  • se l’unico erede legittimario è il coniuge, a esso è riservato il 50% e l’altro 50% rappresenta la quota disponibile;
  • se i legittimari sono il coniuge e un figlio, a essi spetta un terzo ciascuno e il residuo terzo rappresenta la quota disponibile;
  • se i legittimari sono il coniuge e più figli, al coniuge spetta il 25%, ai figli il 50% da dividere tra di loro e il residuo quarto rappresenta la quota disponibile;
  • se unico legittimario è un figlio, a esso spetta il 50% e l’altro 50% rappresenta la quota disponibile;
  • se unici legittimari sono più figli, a essi spettano due terzi da dividersi tra di loro e il residuo terzo rappresenta la quota disponibile;
  • se unici legittimari sono uno o più ascendenti, a esso (o essi in concorso) spetta un terzo e due terzi sono la quota disponibile.

Ovviamente la quota disponibile può essere devoluta dal testatore anche a favore di uno o più dei legittimari (ad esempio, se i legittimari sono due figli, il testatore può lasciare il terzo disponibile a uno dei due che, così, avrà in totale due terzi mentre l’altro solo il terzo di legittima)

Donazioni

Ogni persona, oltre a disporre dei propri beni per il momento in cui avrà cessato di vivere, può, analogamente, disporne mentre è ancora in vita. L’atto con cui può essere esercitato tale diritto è l’atto di donazione e le parti sono: colui che dona detto “donante” e colui che riceve detto “donatario”.

Ai sensi dell’art.769 c.c., la donazione è il contratto col quale una parte ne arricchisce un’altra (con ciò distinguendolo da altri contratti, come la compravendita, in quanto, in linea di principio non vi è uno scambio, un corrispettivo, ma, a seguito della donazione, il donante si troverà “più povero” e il donatario “più ricco”).

Si noti che è un contratto, non un atto unilaterale e quindi, si perfeziona solamente con l’accettazione, contemporanea o successiva, del donatario.

Non cambia la natura dell’atto il fatto che esso venga effettuato per riconoscenza del donante nei confronti del donatario (ad esempio: la donazione di un immobile a favore della governante che va in pensione per gratitudine per i servizi resi alla famiglia) ovvero che, assieme alla donazione, venga stabilito un onere a carico del donatario, con la cosiddetta “donazione modale” (ad esempio: la donazione di un immobile alla Parrocchia a fronte dell’onere perpetuo a che venga celebrata annualmente una messa di suffragio per un congiunto defunto; ovviamente l’onere non può avere valore analogo alla donazione, altrimenti, al di là del “nomen iuris” si è di fronte a qualcosa di diverso).

Sotto il profilo della forma, fatte salve le donazioni di modico valore, esse devono essere fatte per atto pubblico notarile (N.B. = il modico valore, per giurisprudenza consolidata, va visto non in assoluto ma con riferimento alla situazione economico patrimoniale del donante).

Successioni e donazioni: cosa le unisce?

Abbiamo parlato di successioni e di donazioni assieme, non solo perché entrambe le fattispecie riguardano momenti devolutivi o dispositivi del patrimonio, ma anche perché sono strettamente correlate come segue:

  1. il diritto dei legittimari ad ottenere la propria quota di legittima nell’eredità è inviolabile;
  2. il momento in cui valutare se tale diritto è stato rispettato o violato è quello dell’apertura della successione (cioè alla morte del soggetto);
  3. in quella data si valuta il valore dell’asse ereditario e, in questo valore, si ricomprende quello delle donazioni effettuate in vita (togliendo le passività esistenti al momento dell’apertura della successione);
  4. sul valore dell’asse ereditario come sopra si calcola la quota dei legittimari.

In sostanza, per certi aspetti, la donazione è una sorta di “acconto” sulla successione.

Al fine di quanto sopra la Legge prevede due, fondamentali, fattispecie: l’istituto della “collazione” e “l’azione di riduzione”.

  1. Collazione: ai sensi dell’art.737, c.1 c.c. in occasione della morte del donante, i suoi discendenti e il coniuge, accettando l’eredità, devono conferire all’asse ereditario le donazioni che hanno avuto dal defunto mentre era in vita.

Esempio: Tizio muore, senza alcun testamento, lasciando come eredi esclusivamente i 2 figli Caio e Sempronio. Il patrimonio di Tizio, al momento della morte, è di 1.000 (supponiamo tutta liquidità). Caio, tuttavia, ha avuto dal padre mentre era in vita, la donazione di un immobile che, al momento della donazione stessa, valeva 200 mentre al momento della morte di Tizio vale 400. L’asse ereditario è dato dal cumulo tra la liquidità giacente e l’immobile donato illo tempore (supponiamo che non vi siano passività) e, vista l’assenza di testamento, si divide per due. Non solo: il valore su cui fare il calcolo è 1.400 – e non 1.200 – poiché il valore della donazione si valuta al momento della morte del donante. Quindi, in sede successoria, Sempronio avrà liquidità pari a 700 mentre a Caio toccherà 300, che cumulata ai 400 del valore della donazione lo porta a pareggiare il fratello. Naturalmente Tizio potrebbe non accettare l’eredità, nel qual caso egli si terrebbe l’appartamento ma la liquidità di 1.000 andrebbe interamente a Sempronio).

Il donante, tuttavia, in sede di donazione, può dispensare il donatario dalla collazione ma la disposizione è valida solo nei limiti della quota disponibile.

Nell’esempio precedente, se Tizio, in sede di donazione, avesse dispensato Caio dalla collazione, poiché la quota disponibile è 1/3 e 1/3 di 1.400 è 466,66, cioè più di 400, la divisione tra gli eredi avrebbe riguardato i soli 1.000 di patrimonio di Tizio al momento della morte, da dividersi in parti uguali di 500 cadauno tra i 2 fratelli. Così, infine, Caio avrà avuto 400 + 500 = 900 e Sempronio solo 500.

Se però il patrimonio di Tizio al momento della morte, anziché di 1.000 fosse di 500, avremmo che il valore dell’asse ereditario sarebbe di 900 e la quota disponibile di 300. Quindi la liquidità sarebbe divisa, quanto a 300 a Sempronio come sua quota di legittima, quanto a 200 a Caio che, sommato ai 400 della donazione avrebbe in totale 600 ovvero: 300, come sua quota di legittima e 300, come disponibile che il de cuius gli ha attribuito).

In sostanza, ripetiamo, per coniuge e discendenti, la donazione è una sorta di “acconto” sulla futura successione, salvo che il donante disponga diversamente ma, in questo caso, nel limite della quota disponibile.

  • Azione di riduzione (art.553 e seguenti del Codice Civile): è l’azione che consente ai legittimari di ottenere la reintegrazione della legittima mediante la riduzione delle disposizioni testamentarie e/o delle donazioni effettuate in vita, per la parte che ecceda la quota disponibile. Il calcolo della legittima si effettua mediante un’operazione matematico-contabile denominata “riunione fittizia” (calcolo puramente contabile diverso rispetto al conferimento dei beni previsto dalla “collazione”) con la quale si sommano, alle attività lasciate dal defunto, le donazioni effettuate in vita e si tolgono le passività.

Esempio: Tizio muore lasciando un patrimonio di 1.000 e debiti per 300 dopo che, in vita aveva effettuato donazioni per 500 (da intendersi come valore alla data della morte dei beni donati “illo tempore”) a favore di un ente benefico. Con la riunione fittizia si determina che l’asse ereditario è di (1.000 – 300 + 500 =) 1.200. Se gli eredi sono la moglie e due figli, per ciascuno di essi la quota di legittima è di 300. Di conseguenza la quota disponibile è di 300. Poiché l’ente benefico ha avuto 500, gli eredi legittimari potranno esperire giudizialmente l’azione di riduzione per ottenere dall’ente benefico la restituzione di 200 avuti in eccedenza rispetto alla quota disponibile.

Esempio ulteriore: Tizio muore lasciando un patrimonio netto di 600 costituito da beni per 1.000 e debiti per 400, nonché i due figli Caio e Sempronio come eredi legittimari. Tizio lascia anche un testamento con cui destina a Caio un valore di 500 e a Sempronio un valore di 100. L’asse ereditario è, evidentemente di 600 e la quota di legittima di ciascun figlio 200, così come 200 è la disponibile. Di conseguenza Sempronio potrà agire in riduzione della disposizione testamentaria a favore di Caio da 500 a soli 400 (200 di legittima e 200 di disponibile) salvaguardando così la propria legittima.

La proprietà è un diritto costituzionalmente garantito poiché la Costituzione della Repubblica, all’art.42 recita: <<La proprietà è pubblica o privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti o a privati. La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti. La proprietà privata può essere, nei casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi d’interesse generale. La legge stabilisce le norme ed i limiti della successione legittima e testamentaria e i diritti dello Stato sulle eredità.>>

E’, questo, uno degli articoli che più fa emergere in tutta la loro evidenza le tre anime che si confrontarono nella Costituente per la stesura della Suprema Carta: cattolica, marxista e liberale.

Nel rispetto dei principi fondamentali a tutela della proprietà (privata) trasfusi nella Costituzione, la disciplina della materia occupa l’intero terzo libro del Codice Civile (che, ricordiamo, ne è precedente).

Gli articoli che disciplinano la proprietà, vanno dal 810 al 1172 e si occupano degli aspetti più disparati (in discreta parte rilevanti nel periodo storico in cui il Codice Civile fu redatto e approvato – primi anni ’40 – molto meno oggi) ma noi accenneremo solamente a qualche aspetto e, in particolare, alle fattispecie dell’usufrutto e della nuda proprietà perché di particolare rilievo al fine che ci interessa, ovvero al fine di gestire e agevolare il passaggio del patrimonio, anche aziendale, da una generazione all’altra.

La proprietà, art.832 c.c., viene definita come un diritto costituito dalla facoltà di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo entro i limiti e con gli obblighi previsti dall’ordinamento giuridico.

Possiamo quindi dire che la proprietà:

  • è un diritto assoluto: perché, a favore di chi ne è titolare, può essere fatto valere contro tutti;
  • è un diritto economico relativo: perché Costituzione e Codice Civile comprimono il diritto nel caso in cui questo cozzi contro la pubblica utilità;
  • attribuisce il diritto di godere della cosa: il godimento può consistere sia nell’utilizzo che nel non utilizzo (come scelta) fino alla facoltà di distruzione della cosa, oltre al diritto di godere dei suoi frutti;
  • attribuisce il diritto di disporre della cosa: tale diritto consiste nella facoltà di venderla o meno, di donarla, di formarne oggetto di disposizione testamentaria, di costituirvi sopra diritti reali di godimento, ecc…;
  • è un diritto esclusivo: con i limiti della pubblica utilità visti sopra, il proprietario ha il diritto di godere e disporre della cosa in via esclusiva essendo, in questo suo diritto, protetto da norme sia civili che penali;
  • è un diritto pieno: il proprietario, cioè, può fare della cosa tutto ciò che non risulti espressamente vietato.

E’ quest’ultimo aspetto quello che ci interessa di più: l’aspetto della “pienezza” del diritto di proprietà.

Infatti, tra le facoltà concesse al proprietario, vi è anche la facoltà di limitare tale pienezza attribuendo a taluno parte dei diritti connessi alla proprietà, istituendo cioè sulla cosa dei cosiddetti “diritti reali di godimento”. La proprietà, in questo modo, risulta limitata, in quanto ad essa viene sottratto il diritto che viene istituito e, così limitata, viene definita “nuda proprietà”.

I diritti reali di godimento sono: il diritto di superficie, l’enfiteusi, l’usufrutto, l’uso, l’abitazione e le servitù prediali.

Con l’istituzione di uno di questi diritti la piena proprietà viene scissa e divisa tra due soggetti: al primo, cui spetta taluno di questi diritti e al secondo, detto “nudo proprietario”, che resta, per l’appunto, “proprietario” ma non può esercitare i diritti che sono stati trasferiti al primo (“nudo proprietario” proprio perché spogliato dei diritti trasferiti all’altro soggetto).

Dei vari diritti reali di godimento a cui abbiamo accennato sopra, quello che interessa a noi è “l’usufrutto”.

Con il diritto di usufrutto, l’usufruttuario, ha il diritto di:

  • conseguire il possesso della cosa;
  • godere della cosa sia direttamente che indirettamente;
  • raccogliere i frutti della cosa.

In sostanza si tratta di un diritto molto vasto i cui limiti sono solamente:

  • l’obbligo di rispettare la destinazione economica della cosa;
  • i limiti temporali di durata del diritto che sono diversi a seconda della natura (persona fisica o persona giuridica) dell’usufruttuario.

Infatti l’usufrutto può durare al massimo:

  • trenta anni se l’usufruttuario è una persona giuridica;
  • per la vita dell’usufruttuario se è una persona fisica;
  • per la vita dell’usufruttuario che muore per ultimo nel caso l’usufrutto sia stabilito a favore di più persone; in tal caso è possibile prevedere che a favore del superstite vada l’intero usufrutto e non solo la quota di sua spettanza (cosiddetto “diritto di accrescimento”; v. esempio n° 1).

L’usufrutto può nascere per disposizione di legge o per volontà dell’uomo. In questo secondo caso le motivazioni per l’istituzione di un diritto di usufrutto sono molteplici ma, quella che interessa a noi, è una sola: lo strumento si presta benissimo ed è molto utilizzato, per gestire il passaggio del patrimonio da una generazione all’altra.

Prima di fare qualche esempio, due ultime informazioni, di carattere fiscale, estremamente importanti:

  1. la ricostituzione della piena proprietà (consolidazione), in capo a quello che era il nudo proprietario sino a un momento prima, a seguito della cessazione dell’usufrutto, è totalmente esente da imposte;
  2. nel caso di usufrutto vitalizio, fatto pari a 100 il valore della piena proprietà di un bene, quale sia il valore percentuale dell’usufrutto e, a complemento, quale sia il valore percentuale della nuda proprietà, sotto il profilo contrattuale è rimesso alla trattativa tra le parti; tuttavia, in relazione all’età (e quindi all’attesa di vita) dell’usufruttuario (o del più giovane in caso di più usufruttuari) la legge fiscale fornisce una tabella, aggiornata periodicamente anche in correlazione alle variazioni del tasso legale, della ripartizione percentuale del valore complessivo.

Esempi:

  1. Tizio (di anni 75, pensionato) e la moglie Mevia (di anni 71, casalinga senza reddito) abitano in una casa di proprietà della famiglia di Tizio da più generazioni che, tuttavia, abbisogna di importanti e urgenti interventi manutentivi. Essi non hanno risparmi e lo scarso reddito familiare nonché l’età, impediscono l’accesso al credito bancario. La casa, nelle condizioni in cui è, in virtù dell’ubicazione e di altri fattori, vale comunque 200.000,00 euro, mentre gli interventi necessari sono preventivati in euro 100.000,00. Dei 3 figli, Primo, Secondo e Terzilla, i cui rapporti sia reciproci che con i genitori, non sono dei migliori, solamente Terzilla disporrebbe della liquidità necessaria. Tizio e Mevia, quindi, decidono di proporre a Terzilla:
    1. di acquistare la nuda proprietà della casa;
    1. di salvaguardare per loro genitori l’usufrutto vitalizio, con diritto di accrescimento per il coniuge superstite;
    1. di valutare la piena proprietà dell’immobile nelle condizioni attuali euro 200.000,00;
    1. di valutare il diritto di usufrutto (anche tra di loro) in base alla tabella fiscale e quindi, in relazione all’età di Mevia (più giovane) di valorizzarlo in misura pari al 40% del valore dell’immobile;
    1. di conseguenza, che il valore della nuda proprietà che Terzilla dovrebbe pagare, sia pari al 60% ovvero a euro 120.000,00.

Terzilla accetta e si stipula davanti al Notaio l’atto di cessione della nuda proprietà a Terzilla medesima che, in contropartita, paga ai genitori euro 120.000,00.

Effetti per Tizio e Mevia: con euro 100.000,00 effettuano tutti gli interventi necessari sulla casa, residuando loro euro 20.000,00 per ogni futura necessità personale; ognuno dei due potrà godere per tutta la vita della casa (ivi compreso il diritto di affittarla percependone i canoni laddove le condizioni di salute non consentano più loro di continuare a risiedervi); la “perdita” della (nuda) proprietà avrà come unico effetto quello di non poterla lasciare in successione a “tutti” i figli.

Effetti per Terzilla: perde da subito la disponibilità della somma di euro 120.000,00 e paga le imposte indirette sull’acquisto, ma, al decesso dell’ultimo dei genitori, consoliderà (senza alcun onere fiscale!!!) in sé la piena proprietà della casa (il cui valore, oltretutto, risulta accresciuto dai lavori effettuati) e potrà goderne e disporne, per l’appunto, come “pieno proprietario”.

  • Tizio, 60 anni, vedovo e con due soli figli: Caio e Sempronio, è un piccolo imprenditore socio unico di una spa manifatturiera. La società, tenendo conto di patrimonio e avviamento, può essere valutata euro 1.000.000. Grazie ai risparmi della sua attività imprenditoriale, inoltre, Tizio possiede immobili valutabili, nel complesso, euro 1.200.000, di cui 600.000 è il valore di un immobile adibito a studio medico in centro e 200.000 è il valore della casa di famiglia ove egli vive. Dei 2 figli: Caio, ingegnere, 35 anni, opera da 10 anni (appena conseguita la laurea) in azienda in qualità di dipendente, avviato a ruoli da dirigente; Sempronio, 38 anni, medico, svolge l’attività di dentista nello studio medico suddetto pagando un canone di locazione al padre. I rapporti tra tutti sono buoni e, dapprima, Tizio convoca i 2 figli e comunica loro la propria volontà di disporre per testamento di destinare:
    • l’intera partecipazione nella spa a Caio a cui prefigura, contemporaneamente, l’assunzione di un diverso e più importante ruolo in azienda;
    • immobili del valore di euro 1.000.000 a Sempronio tra cui, ovviamente, l’immobile in cui svolge la propria attività;
    • la propria abitazione a entrambi.

I 2 figli prendono atto della volontà paterna e del suo desiderio di trattamento paritetico ma, successivamente, parlando tra di loro, condividono delle perplessità. In sostanza, vista anche la relativamente giovane età del padre, temono che tale volontà venga nel tempo mutata (il testamento, quale atto unilaterale, è sempre modificabile, anche infinite volte, dal testatore) a causa dei motivi più vari: insorgere di contrasti tra il padre e taluno dei figli, senilità sopravveniente, un secondo matrimonio del padre, possibilmente anche con prole…

Di conseguenza propongono a Tizio, che accetta, che egli:

  • doni a Sempronio la nuda proprietà dell’immobile ove esercita; trattenendo per sé l’usufrutto Tizio continuerà a percepire i canoni di locazione (avendo Tizio 60 anni l’usufrutto vale il 60% della piena proprietà e di conseguenza, la nuda proprietà il 40% per cui il valore della donazione è di euro 240.000 ovvero 40% di 600.000);
  • doni a Caio la nuda proprietà di azioni rappresentanti il 60% del capitale sociale della società; trattenendo per sé l’usufrutto Tizio continuerà a percepire i dividendi (avendo Tizio 60 anni l’usufrutto vale il 60% della piena proprietà e di conseguenza, la nuda proprietà il 40% per cui il valore della donazione è di euro 240.000 ovvero 40% di 600.000);
  • disponga del resto per testamento come ritiene.

In questo modo, pur mantenendo Tizio la disponibilità e la quasi totalità di diritti sull’intero proprio patrimonio (tra cui il diritto di goderne dei frutti: canoni di locazione e dividendi), i figli si sentono più protetti rispetto ai possibili cambiamenti di volontà e/o condizioni da parte del padre. Inoltre, qualunque modifica ci sia nell’ambito delle imposte dirette, essi saranno al riparo, relativamente ai beni ricevuti in donazione da successive richieste impositive (gratuità fiscale della consolidazione della piena proprietà).

N.B. = relativamente alla partecipazione societaria, in realtà, meglio ancora sarebbe stato il suo trasferimento (sempre della nuda proprietà) mediante il cosiddetto patto di famiglia. Vedi pagina specifica in questo sito.

Nozione

Il patto di famiglia, per l’ordinamento giuridico italiano, costituisce una novità portata dalla Legge 14.02.2006, n°55, che ha introdotto nel codice civile gli articoli da 768-bis a 768-octies.

In particolare l’art.768-bis c.c. definisce: <<E’ patto di famiglia il contratto con cui, …, l’imprenditore trasferisce, in tutto o in parte, l’azienda, e il titolare di partecipazioni societarie trasferisce, in tutto o in parte, le proprie quote, ad uno o più discendenti>>

Questo istituto, infatti, costituisce una deroga alla regola generale stabilita dall’art.458 c.c. che vieta i cosiddetti patti successori e che recita: <<Fatto salvo quanto disposto dagli articoli 768-bis e seguenti, è nulla ogni convenzione con cui taluno dispone della propria successione. E’ del pari nullo ogni atto col quale taluno dispone dei diritti che gli possono spettare su una successione non ancora aperta, o rinunzia ai medesimi>>.

La parte iniziale dell’articolo (quella scritta in corsivo), peraltro, è stata introdotta proprio dalla L.55/2006 perché in precedenza il divieto era totale e assoluto.

Motivazioni della sua istituzione

Nel corso degli anni e in particolare verso la fine del secolo scorso, gli operatori hanno osservato come il divieto di patti successori fosse penalizzante rispetto a un interesse socio-economico generale, oltreché del singolo, a favorire il cosiddetto passaggio generazionale.

In un tessuto sociale caratterizzato da micro e mini imprese a base familiare, ogni impedimento alla successione dei discendenti nell’azienda di famiglia, al di là degli interessi individuali, appariva negativo per l’economia nazionale.

Il patto di famiglia, quindi, nasce come deroga al principio generale per rispondere a queste istanze e consente all’imprenditore di trasferire la propria azienda pur salvaguardando l’unità familiare.

Il caso tipico è quello dell’imprenditore che ha più figli di cui taluno opera nell’impresa di famiglia, è destinato a portarla avanti e magari già vi opera con notevole impegno e successo, mentre altri hanno fatto scelte di vita diverse.

Dopo aver fornito le definizioni dei termini che ricorrono e averne visto le caratteristiche, spiegheremo perché lo strumento assolva, pur con qualche lacuna, alle finalità di cui sopra.

Definizioni:

  • Patto di famiglia: l’atto con cui un imprenditore assegna a taluno dei propri eredi la propria azienda ovvero tutte o parte delle proprie partecipazioni in società; l’istituto è disciplinato dagli articoli da 768-bis a 768-octies del codice civile;
  • Assegnazione: il contenuto di ciò che viene assegnato ovvero l’azienda (in tutto o in parte) o le quote di partecipazione societaria (tutte o parte di esse)
  • Assegnatari: l’erede o gli eredi destinatari dell’assegnazione di cui sopra (dell’azienda o delle partecipazioni sociali);
  • Eredi non assegnatari: gli altri legittimari, non destinatari diretti dell’assegnazione di cui al patto di famiglia;
  • Disponente: l’imprenditore che effettua l’assegnazione di cui sopra;

Legittimari: gli eredi a cui, per legge, è riservata una quota (legittima) dell’eredità.

Caratteristiche

Apparentemente simile alla donazione (vedremo le differenze), il patto di famiglia è il contratto con cui un imprenditore trasferisce la propria azienda (ovvero, in tutto o in parte, le proprie partecipazioni in società) a uno o più tra i propri discendenti. E’ un contratto tipico (ovvero con contenuto disciplinato dalla legge), che, a pena di nullità, deve essere stipulato nella forma dell’atto pubblico. E’, evidentemente, un atto inter vivos a cui, secondo la dottrina prevalente, devono partecipare necessariamente tutti gli eredi legittimi del disponente (secondo altra parte della dottrina la mancata partecipazione all’atto di taluno tra gli eredi non darebbe luogo alla nullità dell’atto ma comporterebbe esclusivamente la facoltà di costui di chiedere agli assegnatari il pagamento del valore della propria quota di legittima maggiorata degli interessi legali).

Gli eredi non destinatari del patto devono essere liquidati dagli assegnatari dell’azienda o delle partecipazioni sociali, con il pagamento di una somma (ovvero in natura, con beni di valore…) corrispondente al valore delle loro quote di legittima. Secondo la maggioranza della dottrina, che muove dall’analisi del comma 3, dell’art.768-ter c.c., la compensazione di questi soggetti, oltreché dagli assegnatari, può essere effettuata direttamente dal disponente. Inoltre, i legittimari non assegnatari, possono rinunciare alle somme (o ai beni) loro spettanti.

Nel contratto il disponente può riservarsi il diritto di recesso, cioè di annullare l’assegnazione fatta, (peraltro, pattuendo in tal modo, risultano vanificati buona parte degli obiettivi dell’istituto perché, obiettivamente, gli assegnatari non acquisiscono alcuna garanzia sulla definitività dell’assegnazione), diversamente l’assegnazione è definitiva e il patto può essere sciolto solo per mutuo consenso (cioè con l’accordo del disponente ma anche degli assegnatari).

N.B. = Le assegnazioni effettuate nell’ambito di un patto di famiglia non sono soggette a collazione o all’azione di riduzione (vedi pagina su “Successione legittima, testamento e donazione”); resta sempre l’obbligo di rispettare i diritti dei legittimari ma questo, si tradurrà, al momento dell’apertura della successione, in un diritto di credito dei legittimari eventualmente danneggiati nei confronti degli assegnatari a vedersi rimborsati per la somma necessaria a raggiungere il valore della loro quota legittima.

Strumento per agevolare il passaggio generazionale in azienda.

A questo punto possiamo capire perché il patto di famiglia (molto meglio se stipulato senza diritto di recesso da parte del disponente) è un importante strumento per agevolare il passaggio generazionale. Per capirlo con un esempio riprendiamo, semplificandolo, il caso numero 2) della pagina intitolata “Usufrutto e nuda proprietà”.

Dapprima ipotizziamo l’uso dello strumento “donazione” e non del “patto di famiglia”.

Tizio, 60 anni, vedovo e con due soli figli: Caio e Sempronio, è un piccolo imprenditore socio unico di una spa manifatturiera. La società, tenendo conto di patrimonio e avviamento, può essere valutata euro 1.000.000. Grazie ai risparmi della sua attività imprenditoriale, inoltre, Tizio possiede immobili valutabili, nel complesso, euro 1.200.000, di cui 600.000 è il valore di un immobile adibito a studio medico in centro e 200.000 è il valore della casa di famiglia ove egli vive. Dei 2 figli: Caio, ingegnere, 35 anni, opera da 10 anni (appena conseguita la laurea) in azienda in qualità di dipendente, avviato a ruoli da dirigente; Sempronio, 38 anni, medico, svolge l’attività di dentista nello studio medico suddetto pagando un canone di locazione al padre. I rapporti tra tutti sono buoni e hanno concordemente stabilito che Tizio:

  • doni a Sempronio la nuda proprietà dell’immobile ove esercita; trattenendo per sé l’usufrutto Tizio continuerà a percepire i canoni di locazione (avendo Tizio 60 anni l’usufrutto vale il 60% della piena proprietà e di conseguenza, la nuda proprietà il 40% per cui il valore della donazione è di euro 240.000 ovvero 40% di 600.000);
  • doni a Caio la nuda proprietà di azioni rappresentanti il 60% del capitale sociale della società; trattenendo per sé l’usufrutto Tizio continuerà a percepire i dividendi (avendo Tizio 60 anni l’usufrutto vale il 60% della piena proprietà e di conseguenza, la nuda proprietà il 40% per cui il valore della donazione è di euro 240.000 ovvero 40% di 600.000);
  • disponga testamentariamente del resto come ritiene.

In questo modo, pur mantenendo Tizio la disponibilità e la quasi totalità di diritti sull’intero proprio patrimonio (tra cui il diritto di goderne dei frutti: canoni di locazione e dividendi), i figli si sentono più protetti rispetto ai possibili cambiamenti di volontà e/o condizioni da parte del padre. Inoltre, qualunque modifica ci sia nell’ambito delle imposte indirette, essi saranno al riparo, relativamente ai beni ricevuti in donazione da successive richieste impositive (gratuità fiscale della consolidazione della piena proprietà).

In realtà, se vista dall’angolatura dell’interesse della società (e, indirettamente, della collettività) a garantirsi una continuità nella gestione nonché se vista dall’angolatura di Caio, l’operazione avrebbe potuto essere meglio gestita con un patto di famiglia.

Ovvero, l’ipotesi sarebbe:

  • Tizio, con patto di famiglia (senza diritto di recesso), assegna la nuda proprietà del 60% della Spa a Caio;
  • a compensazione (che accettiamo possa fare lui anziché l’assegnatario Caio) dona a Sempronio la nuda proprietà dell’immobile.

Apparentemente il risultato è uguale, ma in realtà, Caio avrebbe avuto i seguenti, ulteriori, vantaggi:

  • il valore di quanto assegnatogli si cristallizza alla data del patto di famiglia (art.768-quater c.c.) e a nulla rileverebbe il fatto che, al momento della morte di Tizio, il valore della partecipazione possa essersi fortemente moltiplicato;
  • all’apertura della successione non si dà luogo alla collazione e pur ricorrendone il caso, Sempronio non può agire con un’azione di riduzione.

Con un esempio numerico, ci spieghiamo meglio.

Immaginiamo che, dopo una decina d’anni, Tizio venga a mancare e che, prima di morire, abbia dissipato tutto il patrimonio che gli era rimasto (compreso il residuo 40% di partecipazione), sicché l’asse ereditario è composto esclusivamente dal 60% oggetto del patto di famiglia e dall’immobile adibito a studio professionale.

La Spa nel frattempo è molto cresciuta e il suo capitale è valutabile in euro 3.000.000 (per cui la quota attribuibile a Caio, 60% a questo punto in piena proprietàvisto il decesso di TIzio, vale euro 1.800.000) mentre, relativamente  al valore dell’immobile, anch’esso, a questo punto, in piena proprietà, supponiamo che sia crollato e l’immobile valga solamente 300.000 euro. Ebbene:

  • in caso di donazione (e non assegnazione per mezzo del patto di famiglia) della quota di partecipazione avremmo che, per l’istituto della collazione, l’asse ereditario sarebbe pari alla somma di immobile e partecipazione, per un valore complessivo di euro 2.100.000 e la legittima di Sempronio sarebbe di euro 700.000. Avendo egli ricevuto solo 300.000 (ricordiamo che i valori si guardano al momento dell’apertura della successione) per integrare la propria legittima egli potrebbe agire in riduzione e chiedere una parte della partecipazione, del valore di euro 400.000, ovvero il 13,33% dell’intero capitale; Caio, quindi, dovrebbe “restituire” parte della donazione ricevuta e, oltretutto, la sua quota nella Spa scenderebbe a (60 – 13,33 =) 46,67% per cui, nella catastrofica ipotesi di un’alleanza di Sempronio con gli altri soci, egli si troverebbe addirittura in minoranza e potenzialmente estromesso dall’amministrazione;
    • in caso di patto di famiglia, essendo il valore assegnato “cristallizzato” alla medesima data, ovvero in euro 240.000, Sempronio non potrebbe legittimamente dolersi di nulla e Caio continuerebbe ad essere il socio di maggioranza della Spa in cui da sempre opera e che, presumibilmente, ha contribuito a portare al successo.

Dovrebbe essere chiaro, a questo punto, la potenza dello strumento “patto di famiglia” in sede di passaggio generazionale in azienda.

Nel nostro esempio, Caio, dal momento dell’assegnazione della nuda proprietà del 60% del capitale sociale della Spa, sarà estremamente motivato a operare per la Spa stessa al massimo delle proprie energie e capacità, nella consapevolezza di operare in buona misura nel proprio interesse.

Non così in caso di donazione dove la “non definitività” della stessa sarebbe un freno al proprio impegno (peggio ancora, ovviamente, se fosse chiamato a impegnarsi solo in virtù di una promessa di lascito testamentario).

Quindi, in generale, l’interesse del Caio del nostro esempio, collima perfettamente con l’interesse della Società che trae tutti i benefici da un assetto societario stabile e da univocità di indirizzo gestionale.

E’ notorio che il tessuto economico nazionale è costituito da Piccole e Medie Imprese (PMI), se non addirittura da micro-imprese, a base familiare e in cui l’imprenditore, spesso, è un cosiddetto “self made man”.

Questa caratteristica della nostra economia:

  • da un lato ne costituisce una grande forza perché questi imprenditori, specialmente nei momenti di crisi, mostrano una forza di volontà e una inventiva che si trasformano spesso, magari inaspettatamente, in armi vincenti;
  • dall’altro ha una debolezza intrinseca enorme costituita dall’accentramento nell’imprenditore di tutte o quasi le conoscenze tecniche e/o commerciali, legando così fortissimamente la vita dell’azienda alla vita fisica dell’imprenditore.

Qualche numero:

  • oltre il 99% delle imprese italiane sono PMI;
  • di queste, ben oltre il 90% è a conduzione familiare;
  • gli imprenditori con più di settant’anni sono circa 300.000;
  • statisticamente, circa 2/3 delle aziende in cui si verifica il passaggio dalla prima generazione (fondatore) alla seconda (in genere i figli) spariscono entro 5 anni dal passaggio generazionale;
  • la sparizione qualche volta è non traumatica (ad esempio: trasferimento dell’azienda ad altri soggetti) ma molto spesso, invece, lo è e si assiste al dissolvimento (semplice chiusura) o addirittura al fallimento dell’impresa.

Ovviamente, in questi ultimi casi, oltre che sugli eredi/proprietari, le conseguenze si ripercuotono sui dipendenti, sui fornitori e, in generale, su quelli che vengono definiti gli stakeholders dell’azienda.

Senza considerare poi, la distruzione di ricchezza derivante dalla perdita del know-how aziendale, del bagaglio di esperienze e, specialmente negli ultimi decenni, dall’abbandono di immobili, impianti  e macchinari che cessano di essere produttivi e non vengono più utilmente ricollocati.

E’ quindi interesse di tutti i soggetti cercare di evitare queste negative evoluzioni e, al contrario, porre le condizioni perché dal passaggio generazionale l’azienda tragga maggior slancio.

E il più interessato di tutti è sicuramente proprio l’imprenditore/fondatore che, certamente, desidera che quanto costruito in una vita di sacrifici possa sopravvivergli ed essere testimonianza delle proprie capacità e dei risultati raggiunti.

Eppure, spesso, il fautore principale, se non esclusivo, del disastro successivo al passaggio generazionale è proprio lo stesso imprenditore.

Le cause, normalmente, vanno ricercate nella sfera psicologica e caratteriale dell’imprenditore in cui si sommano valutazioni e considerazioni del tipo:

  • nonostante l’età anagrafica mi sento forte come quando avevo vent’anni: alla mia successione in azienda ci penserò;
  • i miei figli sono molto giovani (magari hanno 30 anni!), lascia che si divertano: c’è sempre tempo per tribolare;
  • i miei figli sono degli incapaci e non hanno lo spirito e la grinta che avevo io: inutile cercare di insegnare loro, fin che posso “tiro” io, al massimo per loro riservo qualche ruolo marginale dove non facciano danni e quando mi sentirò stanco vedrò cosa fare;
  • i miei figli sono dei geni e non serve che facciano gavetta; loro, contrariamente a me, hanno studiato e sono in grado di prendere in mano l’azienda partendo subito dai ruoli più alti senza che io gli insegni nulla.

In realtà l’approccio corretto dovrebbe essere:

  1. Coinvolgere emotivamente i figli sulla vita dell’azienda fin da piccoli; occorre evitare che sentano l’azienda come un nemico (ad esempio perché occupa quasi tutto il tempo e le energie del papà sottraendole a loro) e, al contrario, la vedano positivamente, non solo come la fonte, presente e futura, del reddito di famiglia, ma anche nella sua funzione sociale e come futuro banco di prova per se stessi.
  2. A tempo debito (iniziando al termine delle scuole superiori, già nella condivisione dell’eventuale percorso universitario e poi successivamente nei primi periodi una volta terminato il percorso scolastico) valutare nel modo più asettico possibile se e quali, tra i propri figli, ha le caratteristiche oltre che la propensione per prendere in mano, in futuro, l’azienda. Nel far questo l’errore più frequente e più grave è basare il giudizio solamente sul fatto che siano o meno, simili a sé, sotto il profilo caratteriale, comportamentale, ecc… Non è detto che un approccio alla vita, da parte loro, diverso sia  necessariamente negativo. Se il padre è un decisionista impulsivo e magari queste caratteristiche lo hanno premiato in certi momenti storici, può essere che un figlio prudente e riflessivo sia la miglior garanzia per il futuro aziendale in periodi diversi. Questa fase (valutativa) è sicuramente la fase più difficile e l’imprenditore farebbe bene a farsi aiutare da soggetti terzi, in quanto non coinvolti emotivamente e, per questo, più oggettivi nei giudizi. In questo ruolo i professionisti che affiancano da sempre l’imprenditore, in primis il Commercialista, possono certamente dare una mano ma, sicuramente, non è la loro branca e l’imprenditore “illuminato” farebbe bene a farsi assistere da soggetti più specializzati (ad esempio da esperti nell’attività di coaching aziendale).
  3. Una volta deciso che taluno dei figli ha le caratteristiche adatte per rappresentare il futuro timoniere dell’azienda (e, naturalmente, accertato che questo sia anche il suo desiderio!) occorre stabilire (meglio, sicuramente, condividendolo con lui!) un percorso di crescita che lo porti ad acquisire le conoscenze e la maturità necessarie. Anche nell’individuazione di questo percorso e poi nella sua esecuzione pratica, l’imprenditore “illuminato” potrebbe farsi aiutare da persone specializzate, da dei facilitatori (la figura è sempre quella del coach aziendale) che aiutino a creare un clima costruttivo, stimolante, gratificante e di fiducia. Occorrerà delegare al giovane, nel tempo, delle funzioni sempre più elevate, correggendone gli errori ma senza colpevolizzarlo o umiliarlo (il padre dovrebbe avere l’umiltà di riconoscere e ricordare gli errori propri). In sostanza il padre dovrebbe svolgere, con convinzione, una delicata e fondamentale attività di “mentoring”. Sembrano discorsi scontati ma, in moltissime realtà aziendali, queste “banalità” non vengono applicate e i comportamenti opposti, portano alla mancanza di dialogo o, addirittura, allo scontro tra le due generazioni.

Il ruolo del commercialista.

A questo punto, nell’applicazione pratica di quanto detto sopra, si rivela prezioso il contributo dei professionisti dell’azienda e in particolare del Commercialista. Nell’ambito del percorso di crescita del giovane, infatti, occorrerà individuare i momenti e gli strumenti con cui attuare gradualmente il subentro.

Gli aspetti manageriali.

Se all’inizio il giovane potrà essere inquadrato come dipendente, successivamente, col crescere delle responsabilità e dei poteri delegatigli, potrà diventare “quadro” e, forse, dirigente.

Se la società risulta amministrata da un Consiglio d’Amministrazione occorrerà individuare il momento in cui egli possa entrare a farne parte. L’operazione potrebbe essere più delicata di quanto non sembri perché, ad esempio, la compagine sociale potrebbe non essere monolitica e il CDA potrebbe rappresentare un equilibrio tra i soci in cui l’innesto di un nuovo elemento potrebbe essere fonte di disequilibrio.

Molto spesso, inoltre, il CDA si riunisce solo formalmente, “sulla carta”, mentre le decisioni gestionali concrete vengono prese con modalità totalmente informali. In questo caso sarà utile convincere le parti ad effettuare le riunioni di Consiglio in modo effettivo e far sì che queste riunioni siano il reale luogo dove ci confronta e si decide. Così facendo il giovane si sentirà effettivamente coinvolto e le discussioni in Consiglio saranno occasioni di reale crescita.

Se invece la società è amministrata da un Amministratore Unico (ovviamente, il proprietario) sarà opportuno, a un certo punto, convincere quest’ultimo a istituire il Consiglio di Amministrazione per poi agire come appena visto sopra.

Gli aspetti patrimoniali.

E prima o poi occorrerà affrontare anche la questione della partecipazione al capitale della società da parte del giovane futuro “timoniere” che, specialmente in presenza di altri coeredi (fratelli e sorelle) che nella vita hanno fatto scelte diverse, considerato invece il proprio contributo all’evoluzione dell’azienda, vorrà garantirsi una priorità nel subentro nel patrimonio di questa.

Per questi aspetti rimandiamo a quanto detto nella pagina intitolata “Usufrutto e nuda proprietà” (in particolare al secondo esempio ivi presentato) ma soprattutto alla pagina intitolata “Il patto di famiglia” che, come detto in quella sede, rappresenta uno strumento formidabile, pur con qualche lacuna e qualche dubbio applicativo, per risolvere questo genere di problemi.

Se ci sono più figli che subentrano oppure nemmeno uno.

Ovviamente il caso in cui a subentrare in azienda siano più figli non cambia nulla dei ragionamenti e dell’impostazione sopra evidenziata. Ci sarà solamente una maggior complessità nella gestione dei percorsi e nell’attuazione dei passaggi manageriali e patrimoniali perché occorrerà tenere nel debito conto anche la necessità di equilibrio tra tutti i soggetti della nuova generazione subentrante.

Più delicata è la situazione opposta in cui la prima generazione non abbia eredi o, caso più comune, non abbia eredi desiderosi di entrare in azienda o, ancora, questi si appalesino come totalmente negati per un ruolo di responsabilità gestionale. L’imprenditore/fondatore, a questo punto, dovrebbe prendere atto della situazione e, in queste ultime ipotesi, non accanirsi nel cercare di trovare il proprio futuro sostituto in famiglia.

Tuttavia, sia per salvaguardare il frutto dei propri sacrifici e della propria capacità, sia per senso di responsabilità nei confronti di tutti gli stakeholders dell’azienda, in primis dipendenti e collaboratori, dovrebbe iniziare, sempre facendosi affiancare, la ricerca di un successore, magari proprio tra gli stessi dipendenti e collaboratori. Una volta individuato il soggetto più promettente si riparte dal precedente punto 3).

P.S. = Chiarimento finale. Per semplicità e velocità discorsiva abbiamo parlato di “padre”, ma è evidente che questo termine simboleggia qualunque appartenente alla prima generazione, (padre, madre, entrambi, nonni, zii, ecc…) e di “figlio”  con questo intendendo qualunque appartenente alla seconda generazione subentrante (figlio, figlia, più figli, nipoti, soggetto esterno individuato come successore, ecc…).

La Legge 22.06.2016, n° 112 “Disposizioni in materia di assistenza in favore delle persone con disabilità grave prive del sostegno familiare” (ribattezzata giornalisticamente “Legge sul dopo di noi”) si inserisce in un percorso legislativo iniziato nel 1992 con la legge 104.

Come dice già il titolo della Legge e viene meglio declinato nel suo articolo 1, la finalità è <<favorire il benessere, la piena inclusione sociale e l’autonomia delle persone con disabilità>> che si trovino senza il sostegno dei genitori in quanto deceduti ovvero in quanto non in grado di fornire l’adeguato sostegno genitoriale.

A questi fini la Legge agevola:

  1. le erogazioni da parte di soggetti privati;
  2. la stipula di polizze di assicurazione;
  3. la costituzione di trust;
  4. la costituzione di vincoli di destinazione di cui all’art.2645-ter del Codice Civile;
  5. fondi speciali composti di beni sottoposti a vincolo di destinazione disciplinati con contratto di affidamento fiduciario anche a favore di ONLUS che operano prevalentemente in favore di persone con disabilità grave.

La Legge prevede anche l’istituzione da parte dello Stato di un fondo, inizialmente di euro 90.000.000, da utilizzare con modalità stabilite dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali sulla scorta di criteri stabiliti dalle Regioni.

Con il coinvolgimento delle Regioni e delle Province autonome e con la collaborazione dei Comuni, l’intento è:

  • consentire a queste persone, per quanto possibile, di non dover vivere in istituti, bensì in abitazioni o gruppi-appartamento, al fine di evitarne l’isolamento;
  • in via residuale e in condizioni di emergenza, di stabilire degli interventi per la permanenza temporanea in soluzioni extrafamiliari nel rispetto della volontà, se possibile, dei disabili stessi ovvero dei loro genitori o di chi ne tutela gli interessi;
  • realizzare interventi innovativi di residenzialità;
  • sviluppare programmi di accrescimento delle competenze per la gestione della vita quotidiana dei disabili stessi ovvero per il raggiungimento del maggior grado possibile di autonomia

Per quanto riguarda i privati, invece, viene previsto:

  • l’aumento di deducibilità (da euro 530 a euro 750) dei premi sulle polizze vita finalizzate alla tutela delle persone con disabilità grave;
  • l’esenzione dalle imposte di donazione e successione e l’applicazione in misura fissa delle imposte di registro, ipotecarie e catastali, per i beni conferiti in trust o gravati da vincoli di destinazione destinati a fondi speciali per le finalità della Legge purché in sede di istituzione del trust o del fondo speciale venga rispettata una serie di vincoli abbastanza stringenti;
  • la possibilità per i Comuni di stabilire agevolazioni ai fini delle imposte locali per i medesimi atti.

Il Governo dovrà provvedere a campagne di informazione sulla Legge e a relazionare alle Camere sullo stato di attuazione della Legge (tuttavia, a tutt’oggi, la pratica applicazione della Legge è ancora in alto mare).

La Legge, comunque, costituisce solo un primo passo perché per il raggiungimento delle finalità prefissate gli strumenti sembrano abbastanza modesti (un incremento della deducibilità dei premi sulle polizze da 530 a 750 euro non sembra, francamente, sconvolgente). La parte più interessante, tuttavia, è proprio quella dove si stimolano e si agevolano, tipicamente da parte dei genitori del soggetto disabile grave, operazioni di disposizione sul proprio patrimonio con utilizzo degli strumenti di cui diamo conto in altre pagine di questo sito.

Fa parte dell’istinto naturale dell’individuo cercare, in ogni momento, di porre in essere tutte le azioni possibili a garanzia del futuro proprio e dei propri cari.

Nell’ambito di questo istinto si pone la tendenza ad effettuare quanto possibile per salvaguardare il proprio patrimonio e, in particolare, per metterlo al riparo da possibili aggressioni da parte di creditori, esistenti o potenziali.

La tensione in questa direzione è sicuramente amplificata in chi svolge attività economiche. Imprenditori e professionisti sanno molto bene che, per quanto operino in modo prudente e nel rispetto delle leggi, non possono escludere di trovarsi, in futuro, soggetti ad aggressioni patrimoniali da parte di fornitori, di banche, del fisco, ecc…

E’ quindi naturale che, in presenza di beni patrimoniali (casa di abitazione, altri immobili, terreni, partecipazioni sociali, ecc…), cerchino strumenti in grado di metterli al riparo da possibili azioni ostili di terzi.

Purtroppo, tale naturale desiderio, cozza con l’interesse generale che è quello di tutelare eventuali creditori nel loro diritto di vedere soddisfatti i propri crediti.

Tra i due interessi/diritti (quello individuale di mettere al riparo il proprio patrimonio e quello collettivo di fornire tutele ai potenziali creditori) il Legislatore, abbastanza ovviamente, privilegia quest’ultimo essendo prioritario l’interesse collettivo su quello individuale.

La norma che traduce questo principio è l’art.2740, del Codice Civile che, al comma 1, dice che

<<Il debitore risponde dell’adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri>>

Salvo mitigare l’onnicomprensività (…tutti…) di tale principio al comma 2 che, testualmente, recita:

<<Le limitazioni della responsabilità non sono ammesse se non nei casi stabiliti dalla legge>>.

Di conseguenza, quando un soggetto (e il commercialista che lo assiste) intende valutare delle azioni a tutela del proprio patrimonio, deve avere ben chiara questa norma e la sua portata.

La norma stessa, infatti, ammette che possano esservi dei casi di limitazione della responsabilità ma statuisce che questi casi devono essere “stabiliti dalla legge”.

In queste deroghe al principio generale vengono indicati, spesso a sproposito, strumenti quali: fondo patrimoniale, trust, atti di destinazione e, da ultimo, la cosiddetta legge “sul dopo di noi”.

Questi strumenti, infatti, pongono in essere situazioni che sottraggono i beni di un soggetto o parte di essi, alle azioni dei creditori del soggetto stesso e, quindi, costituiscono quelle limitazioni della responsabilità che sono ammesse dalla legge.

Quello che spesso non è chiaro è che tali strumenti costituiscono deroghe ammesse al principio generale di responsabilità patrimoniale NON IN SE’, ma solamente quando utilizzati per garantire altri interessi che il legislatore ritiene meritevoli di tutela quali: garanzie economiche per le necessità di famiglia e in particolare di eventuali figli minori (fondo patrimoniale), garanzie per soggetti con gravi disabilità (trust e legge sul dopo di noi), ecc…

Sono le situazioni (ad essere) meritevoli di tutela che il Legislatore ammette come presupposto per derogare al principio generale di responsabilità patrimoniale, non lo strumento utilizzato. Il fondo patrimoniale, piuttosto che il trust o altro istituto giuridico, costituiscono semplicemente gli strumenti ammessi al fine di raggiungere quell’obiettivo che il Legislatore riconosce come tutelabile.

Di conseguenza, l’individuazione dello strumento migliore deve partire dal presupposto che esso resisterà alle potenziali aggressioni legali di chiunque ne abbia interesse, solamente se si potrà dimostrare che le finalità per cui è stato posto in essere rientrano tra quelle meritevoli di tutela previste dalla legge.

Le azioni di aggressione possibili sono diverse: si va dall’azione revocatoria (ordinaria o fallimentare), all’azione di simulazione ex art.1414 Codice Civile, all’azione di nullità per causa illecita ex art.1418 dello stesso Codice.

Tra le azioni poste in essere per proteggere il patrimonio rientrano anche quelle volte ad attuare il cosiddetto “passaggio generazionale” come la donazione o il patto di famiglia. Di questi concetti si parla specificamente in altre pagine di questa sezione del sito.

Il fondo patrimoniale consiste in un vincolo posto su un complesso di beni, nell’interesse della famiglia.

Costituzione.

La sua realizzazione avviene mediante la costituzione di un patrimonio separato di destinazione, sul quale i poteri dispositivi dei costituenti risultano limitati, così come limitate sono le eventuali azioni esecutive da parte dei creditori.

Il fondo può essere costituito in qualunque momento in uno dei seguenti modi:

  • da uno solo dei coniugi;
  • da entrambi i coniugi;
  • da un terzo (in questo caso serve l’accettazione di entrambi i coniugi e la costituzione deve essere fatta per atto pubblico);
  • da un terzo con testamento.

Il fondo può essere costituito da beni immobili, da beni mobili registrati o da titoli di credito specificamente individuati.

I beni vincolati nel fondo e i loro frutti possono essere destinati esclusivamente al soddisfacimento dei bisogni della vita familiare.

Effetti tra i coniugi.

I beni vincolati nel fondo sono amministrati da entrambi i coniugi secondo le norme sulla comunione legale (art.180 c.c.) ovvero: in forma disgiunta per quanto riguarda gli atti di ordinaria amministrazione e in forma congiunta per quanto riguarda gli atti di straordinaria amministrazione.

Di conseguenza, in quanto atti di straordinaria amministrazione, i beni possono essere venduti, ipotecati, dati in pegno o comunque vincolati, solo col consenso di entrambi i coniugi.

Se poi vi sono dei figli minori, le suddette operazioni necessitano dell’autorizzazione del giudice.

In linea generale anche la proprietà dei beni costituiti nel fondo è di entrambi i coniugi, anche quando essi provengono da uno solo di essi. Tuttavia l’atto costitutivo può prevedere diversamente.

Effetti nei confronti dei terzi.

I creditori di uno o di entrambi i coniugi, non possono agire esecutivamente sui beni del fondo e sui relativi proventi, per debiti che essi avessero coscienza essere stati contratti per motivi diversi dalla necessità di soddisfare i bisogni della famiglia.

In sostanza un creditore può rivalersi sui beni del fondo o sui loro proventi solo:

  • per debiti contratti dai coniugi per i bisogni della famiglia
  • oppure per crediti contratti per motivi diversi ma che il creditore non sapeva essere estranei all’interesse della famiglia.

Così, ad esempio, una banca non potrà rivalersi sui beni costituenti il fondo per un finanziamento effettuato a uno dei coniugi, imprenditore individuale, per l’acquisto di macchinari dell’azienda, in quanto non può ignorare che quel finanziamento non è servito al soddisfacimento dei bisogni familiari.

Sotto il profilo formale il fondo risulta opponibile ai terzi a due condizioni:

  • i coniugi devono annotare la costituzione del fondo a margine dell’atto di matrimonio e
  • per quello che riguarda i beni immobili l’atto costitutivo deve essere anche trascritto nei registri immobiliari.

N.B. = se l’atto è solo trascritto nei registri immobiliari, ma non annotato nell’atto di matrimonio, esso non può essere opposto ai terzi.

Proprio in relazione alla sua opponibilità ai terzi creditori, nella pratica, il fondo patrimoniale viene spesso costituito per difendere i beni familiari da possibili azioni dei creditori per debiti contratti nello svolgimento dell’attività d’impresa o di lavoro autonomo da parte di uno dei coniugi.

Va evidenziato che, secondo l’amministrazione finanziaria, i debiti tributari non sono mai estranei ai bisogni della famiglia e quindi, sempre secondo l’amministrazione finanziaria, i beni e i proventi del fondo patrimoniale sono sempre aggredibili per motivi tributari. Va tuttavia, altrettanto evidenziato che la prevalente giurisprudenza di merito ritiene questa posizione dell’amministrazione finanziaria destituita di fondamento.

Ma, al di là della materia tributaria, a questo punto, come si contemperano le previsioni di cui all’articolo 2740 del codice civile in materia di “principio di responsabilità patrimoniale” (vedi altra pagina di questo sito) con quanto previsto in tema di fondo patrimoniale?

La soluzione va trovata nelle possibilità offerte ai creditori di opporsi alla costituzione del fondo patrimoniale quando questo appare volto a sottrarre alla loro azioni esecutive i beni su cui essi fondavano le proprie speranze di risarcimento.

In sostanza i creditori possono agire in giudizio con l’azione revocatoria ordinaria per chiedere al giudice di rendere inefficace il fondo nei loro confronti.

Sotto questo profilo è estremamente importante differenziare il caso in cui il debito era sorto prima della costituzione del fondo, nel qual caso è sufficiente che i creditori dimostrino che i coniugi costituenti erano consapevoli di arrecare pregiudizio ai loro interessi (cosa che risulterà sempre comprovata quando i beni rimasti estranei alla costituzione del fondo non sono capienti come garanzia del pagamento del debito), dal caso in cui il debito sorga dopo, nel quale il creditore procedente dovrà provare anche, prova molto più difficile da dare, che era intenzione dei costituenti nuocere al soddisfacimento delle ragioni di credito.

In sostanza la costituzione di un fondo patrimoniale in presenza di debiti importanti, comunque tali da essere garantiti solamente o in gran parte, dai beni costituiti nel fondo medesimo, è di fatto inutile o in ogni caso rischiosa, in quanto i creditori avranno buon gioco a dimostrare che il fondo fu costituito in loro danno.

Va tuttavia tenuto presente che l’azione revocatoria ordinaria si prescrive in cinque anni dal compimento dell’atto (ovvero dalla costituzione del fondo) e richiede che le prove come sopra indicate siano fornite da chi ha promosso l’azione.

Un caso particolare riguarda il fallimento di uno dei due coniugi (a seguito dell’entrata in vigore del Codice della Crisi, D.Lgs 14/2019, dal 15.07.2022, è più corretto parlare di tale coniuge non come “fallito”, bensì come “soggetto a liquidazione giudiziale”), quando il fondo fu costituito (anche) con i beni di quest’ultimo. In tal caso si ritiene esperibile l’azione revocatoria fallimentare, di cui all’articolo 163 del suddetto Decreto Legislativo, che sostanzialmente esonera il curatore fallimentare (meglio: “curatore della liquidazione giudiziale”) da ogni necessità di prova se il fondo patrimoniale è stato costituito nei due anni antecedenti alla data di dichiarazione del fallimento.

Cessazione del fondo.

La destinazione del fondo cessa in questi seguenti tre casi:

  • divorzio;
  • annullamento del matrimonio;
  • accordo unanime dei coniugi.

Gli effetti della cessazione sono però diversi nei due seguenti casi:

  1. se non ci sono figli minori i beni vengono divisi tra i coniugi applicando le norme sullo scioglimento della comunione legale, salvo il caso in cui i beni o parte di essi fossero stati costituiti nel fondo da uno solo dei coniugi e questo si fosse riservato la proprietà; in tal caso i beni ritornano nella sua piena disponibilità;
  2. se invece ci sono figli minori il fondo prosegue fino a quando il più giovane di essi raggiunge la maggiore età; in questo caso il giudice stabilisce le regole per l’amministrazione del fondo.

Conclusioni: il fondo patrimoniale è un ottimo strumento per proteggere il patrimonio dalle aggressioni dei terzi, purché esso sia costituito “in tempi non sospetti”.

In sostanza:

  • se il fondo viene costituito in un momento in cui le condizioni economico-patrimoniali della famiglia sono buone, esso costituisce un validissimo strumento per tenere al riparo i beni costituiti da successive (impreviste) negative traversie;
  • se il fondo viene costituito quando la situazione è già compromessa, esso costituisce un tentativo che, molto probabilmente, sarà destinato a fallire.

Iniziamo dicendo che, se costituire un fondo patrimoniale è un atto estremamente semplice sotto il profilo formale, la costituzione di un trust, invece, è un’operazione alquanto complessa.

Questo dipende dal fatto che il trust non è regolamentato nella normativa italiana (un disegno di legge per l’istituzione e disciplina in Italia del “contratto di fiducia” – trust in inglese significa fiducia anche se, in questo ambito, il termine sarebbe meglio tradotto con “affido” – giace in Parlamento dal 2015) essendo un istituto tipico dei paesi anglosassoni.

Il trust può essere costituito in Italia solamente a seguito della ratifica, in vigore dal 1992, della Convenzione dell’Aja del 01.07.1985.

Vi sono poi richiami al trust in diverse leggi speciali, come ad esempio quella sul “dopo di noi” (L.112/2016; vedi altra pagina di questo sito).

Siamo di fronte a trust italiani, quindi, quando le figure coinvolte e i beni in esso conferiti sono italiani (ma la normativa applicabile deve essere scelta tra quelle di ordinamenti stranieri che disciplinano il trust come istituto giuridico).

Le figure del trust sono tre o talvolta quattro, tenendo però presente che la flessibilità dello strumento consente (salvo limitazioni di cui parleremo) che la stessa persona possa assumere su di sé anche più figure e sono:

  1. disponente (in inglese “settlor” o “grantor”): è colui che istituisce il trust, tipicamente trasferendovi beni propri;
  2. gestore o amministratore (in inglese “trustee”): è colui che riceve l’intestazione dei beni e che li gestisce, fiduciariamente, seguendo le regole stabilite nell’atto di costituzione del trust;
  3. beneficiario (in inglese “beneficiary”): colui (o coloro potendo essere anche più soggetti) per la cui protezione o per il cui sostegno il trust viene istituito:
  4. guardiano (in inglese “protector”): è una figura solo eventuale che, quando prevista nell’atto costitutivo, ha la funzione di controllare l’operato del gestore.

Secondo la tipologia, in dottrina, si distingue tra:

  • Trust con beneficiari: il cui fine è proteggere e sostenere dei soggetti (beneficiari) ben individuati (come, tipicamente, figli, nipoti, soggetti svantaggiati, ecc…) o individuabili (come i figli che nasceranno in futuro da una certa unione).
  • Trust di scopo: il cui fine è il raggiungimento di un determinato scopo, ovviamente lecito (come potrebbe essere il sostegno ad attività caritative).

Costituzione del trust.

Sotto il profilo della costituzione abbiamo:

  • il trust interno, ovvero il trust costituito in Italia nel quale tuttavia dobbiamo indicare a quale legislazione si fa riferimento.
  • Il trust estero che viene costituito direttamente all’estero e per il quale quindi si applica la legislazione del paese nel quale viene costituito

Nella costituzione di un trust, sotto il profilo del contenuto, il trust stesso deve contenere i seguenti elementi essenziali:

  • deve essere evidenziata la volontà del disponente di costituire il trust stesso e la tipologia di trust prescelta,
  • devono essere indicate le regole del trust ovvero: la sua durata, i nominativi e i poteri del trustee e del guardiano, quali siano i beneficiari, quali siano i criteri di amministrazione dei beni eccetera…,
  • quali siano i beni o i diritti che vengono trasferiti (tuttavia questo trasferimento può avvenire anche in atti successivi).

Sotto il profilo della forma, la costituzione di un trust deve essere comprovata da un atto scritto (talvolta in relazione alla natura dei beni trasferiti, occorre anche l’atto pubblico) e, soprattutto, deve essere costituito volontariamente. Inoltre, per poter essere fiscalmente riconosciuto, il trust deve essere irrevocabile ovvero non deve contenere clausole che consentano al disponente di revocarlo.

Per quanto riguarda la durata, in Italia il trust deve avere una durata limitata che non può superare i 100 anni.

Effetti a garanzia del patrimonio.

L’effetto fondamentale della costituzione di un trust è dato dalla segregazione patrimoniale del patrimonio conferito rispetto sia ai beni del disponente che a quelli del trustee. Di conseguenza:

  • i creditori personali sia del disponente, che del trustee, che di ogni altra figura che può comparire nel trust, non possono rivalersi per i propri crediti sui beni conferiti nel trust,
  • i beni conferiti rispondono solo per le obbligazioni assunte dal trust medesimo.

L’amministrazione di tali beni è riservata al trustee, che ne risulta anche intestatario, sotto la sorveglianza del guardiano se nominato, potendo il disponente (semplicemente e se è previsto) dare delle direttive che tuttavia non sono vincolanti per il trustee.

La figura del trustee.

In ragione del suo potere/dovere di amministrazione dei beni, il trustee è il soggetto a cui carico vengono messi gli oneri maggiori.

Tra questi il principale riguarda la tenuta della contabilità, l’assolvimento di tutti gli obblighi fiscali e la predisposizione di un rendiconto periodico dello svolgimento della propria attività e dei risultati ottenuti.

Il trustee può essere sostituito o per sua scelta ovvero perché revocato dal disponente o dal guardiano o dal giudice in caso di gravi irregolarità da lui commesse.

Trattamento fiscale.

La fiscalità di un trust è piuttosto complessa e, su certi aspetti, controversa, sia relativamente all’imposizione diretta che all’imposizione indiretta.

Pertanto, in questa sede, ne omettiamo completamente la trattazione.

Cessazione del trust

Il trust cessa o per il raggiungimento degli obiettivi stabiliti nell’atto costitutivo ovvero per il raggiungimento del termine finale.

In ogni caso, normalmente, i beni e i diritti del trust vengono assegnati ai beneficiari.

È tuttavia possibile stabilire che i beni possano ritornare al disponente ovvero che vadano a terzi che non risultavano tra i beneficiari durante il corso della vita del trust.

L’effetto di segregazione patrimoniale del patrimonio rispetto ai beni del disponente, così da sottrarlo ai creditori del disponente stesso, oltre che col trust, si può ottenere anche con un atto di destinazione di cui all’art.2645-ter (da taluno, proprio per questo, definito, anche se assai impropriamente, trust all’italiana).

Questa norma, inserita nel Codice Civile a fine 2005, stabilisce che:

  • un soggetto (che la norma chiama “conferente”)
  • tramite un atto pubblico (forma obbligata)
  • può destinare alla realizzazione di interessi meritevoli di tutela “riferibili a persone con disabilità, a pubbliche amministrazioni, o ad altri enti o persone fisiche ai sensi dell’art.1322, c.2…” (finalità)
  • beni immobili o mobili registrati (oggetto dell’atto)
  • per un periodo non superiore a 90 anni o alla vita della persona beneficiaria (durata)
  • rendendo così opponibile ai terzi il vincolo di destinazione (segregazione del patrimonio)

e ancora:

  • che, oltre al “conferente” e quand’anche questo fosse (ancora) in vita, per la realizzazione degli interessi meritevoli di tutela, può agire qualsiasi interessato,
  • che i beni conferiti e i loro frutti, possono essere utilizzati solo per la realizzazione del fine di destinazione,
  • che gli stessi beni e frutti possono essere oggetto di esecuzione solo per debiti contratti ai fini dello scopo perseguito con l’atto di destinazione.

La norma, pur disciplinando un tema di elevata rilevanza sociale, in virtù della sua giovane vita, ma anche di una tecnica legislativa assai carente e discutibile, presenta diverse problematicità e, di conseguenza, sino a oggi, risulta poco applicata.

Un primo aspetto di problematicità riguarda la natura stessa della norma.

Per taluni, in virtù di parte del suo contenuto e della collocazione nella parte del Codice Civile volta a disciplinare le forme di pubblicità (nel Libro VI “Della tutela dei diritti”, nel Titolo I “Della trascrizione”), si tratterebbe di una norma operante solamente nell’ambito della trascrizione di altri negozi giuridici. Secondo questa interpretazione la suddetta destinazione potrebbe operare solamente all’interno di atti traslativi della proprietà e/o di diritti reali e, di conseguenza, sarebbe inammissibile un atto col quale il vincolo di destinazione venisse statuito senza alcun altro “movimento” sugli immobili destinati.

Per altri, invece, la norma avrebbe carattere sostanziale arrivando a configurare un “negozio destinatorio puro”, autonomo rispetto agli altri negozi giuridici. Quindi, al contrario di quanto asserito al capoverso precedente, sarebbe perfettamente legittimo quell’atto in cui il conferente, con riferimento a taluni beni, senza disporre null’altro, stabilisse semplicemente che essi siano destinati (vincolati) alle finalità stabilite nell’atto stesso, con ciò segregandoli e sottraendoli ai  propri  creditori (ovviamente nulla vieta che questi, se ne vengono a conoscenza e se ne ricorrono i presupposti sostanziali e temporali, possano esperire l’azione revocatoria ordinaria o fallimentare).

Un secondo aspetto di problematicità riguarda la meritevolezza delle finalità richieste dalla norma ai fini della validità dell’atto.

Secondo taluni interpreti, stante anche l’espresso richiamo all’art.1322 del Codice Civile, la meritevolezza deve intendersi come semplice mancanza di illiceità. Di conseguenza sarebbe meritevole qualsiasi finalità che non risulti contrastante con norme imperative dell’ordinamento.

Secondo altri, che pongono l’accento sui richiami alle persone con disabilità e alle pubbliche amministrazioni, il requisito di meritevolezza sarebbe sussistente solamente quando la finalità dell’atto risponda a crismi di utilità sociale e/o di pubblica utilità. Sicchè, in assenza di tali finalità più “elevate”, l’atto sarebbe nullo e invalido a proteggere i beni oggetto dell’atto stesso.

In quest’ottica gli elementi di meritevolezza potrebbero essere individuati:

  • nella tutela dei disabili (ambito di tutela esplicitamente previsto dalla norma);
  • nel sostegno a finalità previste da fondazioni di varia natura;
  • nel sostegno alla famiglia in crisi;
  • nel caso di convivenza “more uxorio” (peraltro ora tutelata anche dalla normativa sulle convivenze di fatto di cui alla L.76/2016);
  • nella tutela di famiglie allargate;
  • e, con qualche perplessità, nell’ambito di situazioni di imprese in crisi (l’istituto dell’atto di destinazione, talvolta, è stato utilizzato come strumento per l’apporto di finanza esterna nel caso di proposte di concordato preventivo, subordinatamente all’omologa di esso).

Va sottolineata, infine, con riferimento al criterio di meritevolezza, l’importanza della figura del Notaio, stante la sua responsabilità nel vaglio di liceità di tutti gli atti redatti a proprio ministero; responsabilità vieppiù rafforzata in caso di scritture redatte in forma di atto pubblico.

Ancora, non è chiaro se si sia di fronte a un atto:

  • unilaterale, in cui, cioè, l’unica parte sia il “conferente” che dispone dei propri beni in via del tutto autonoma ovvero
  • bilaterale, al quale, quindi, debba partecipare anche il beneficiario in virtù del proprio diritto generale di intangibilità della propria sfera patrimoniale.

L’orientamento prevalente sta nel considerare l’atto come unilaterale salvo che l’accettazione del beneficiario, che quindi può essere contestuale o successiva, serve per “stabilizzarne” gli effetti.

Prescindendo dalle problematicità sopra esposte (peraltro assai rilevanti e, nei fatti, fortemente limitanti dell’utilizzo concreto dello strumento giuridico) siamo di fronte a un istituto che realizza una importante limitazione del generale principio di responsabilità patrimoniale di cui all’art.2740 c.c. che viene subordinato alla meritevolezza degli interessi perseguiti con l’atto.

Con l’atto di destinazione, infatti, in deroga al principio generale e fatta salva la possibilità dei creditori per causa precedente all’atto stesso di esperire l’azione revocatoria, il “patrimonio destinato” viene sottratto ai creditori medesimi che non potranno rivalersi su di esso per le obbligazioni contratte dal conferente.

La prevalenza degli interessi meritevoli sul principio di responsabilità patrimoniale risulta confermata e rafforzata dalla disposizione dell’art.2645-ter che testualmente recita: <<per la realizzazione di tali interessi può agire, oltre al conferente, qualsiasi interessato anche durante la vita del conferente stesso>>. Considerando che, salvo clausola contraria espressa, l’atto di destinazione è da considerare come un atto irrevocabile, la disposizione conferisce a chiunque ne abbia interesse (sia esso il beneficiario, ma anche un terzo interessato a salvaguardare i diritti del beneficiario) il potere, anche contro la volontà del conferente, di far rispettare il vincolo di destinazione.

Parliamo di assicurazioni in relazione alla capacità di questo strumento di tutelare il patrimonio di famiglia e, di conseguenza, ci limiteremo alle assicurazioni sulla vita, unico ramo che ci interessa ai nostri fini.

In generale, il contratto di assicurazione è disciplinato dal codice civile, dal codice delle assicurazioni, e da numerosi regolamenti, la maggior parte dei quali emessa dall’IVASS (Istituto per la Vigilanza sulle ASSicurazioni) o dal suo predecessore ISVAP (IStituto per la Vigilanza sulle Assicurazioni Private e di interesse collettivo).

Le parti di un contratto di assicurazione sono costituite:

  1. da un lato dall’assicuratore, in genere una compagnia di assicurazione, società che, per svolgere tale attività, deve essere autorizzata dagli enti preposti,
  2. dall’altro vi è una pluralità di soggetti costituiti da:
    1. contraente: soggetto che stipula il contratto di assicurazione con la società di assicurazione e paga i premi previsti dal contratto stesso;
    1. assicurato: soggetto portatore del rischio ovvero il soggetto relativamente al quale si verifica l’avverarsi dell’evento che risulta assicurato;
    1. beneficiario: titolare del diritto all’ottenimento della prestazione da parte dell’assicuratore al verificarsi dell’evento assicurato.

Ad esempio, Tizia (contraente) potrebbe contrarre un’assicurazione legata al rischio della morte del coniuge Caio (assicurato), che preveda, in caso si verifichi lo sventurato evento, il pagamento di una somma di denaro al figlio Sempronio (beneficiario).

Ma le tre figure possono identificarsi in due soli soggetti o, addirittura, anche in uno solo.

Ad esempio, Tizio (contraente) potrebbe contrarre un’assicurazione che preveda che quando egli stesso (assicurato) raggiunga una certa età, gli venga corrisposta (beneficiario) una rendita vitalizia mensile.  Quindi Tizio raggruppa in sé tutte e tre le figure.

Caratteristiche e vantaggi delle polizze assicurative.

Parliamo di polizze assicurative in ambito di gestione del patrimonio in relazione alle seguenti, loro, caratteristiche:

  1. Esclusione dall’asse ereditario: le somme che la società di assicurazione deve al beneficiario, in caso di successione, sono escluse dall’asse ereditario. In concreto, tali somme non entrano nel computo dei valori di quota di legittima e di quota disponibile.
  2. Impignorabilità e insequestrabilità: salva l’ipotesi di reato e a condizione che l’assicurazione sia stata contratta con reali finalità previdenziali e non speculative o, peggio, di frode ai creditori, le stesse somme sono impignorabili e insequestrabili. In concreto, i creditori del contraente che abbia versato cospicui premi per garantire una somma (o una rendita) a un terzo (beneficiario) non possono aggredire tale somma (o tale rendita) per rivalersi dei propri crediti.
  3. Esclusione dalla massa fallimentare: tutele analoghe alla precedenti vi sono in caso di fallimento del contraente. Il Curatore non può chiedere all’assicurazione l’erogazione di tali somme a proprio favore né può chiederle al terzo beneficiario. Solamente se ad essere fallito sia il beneficiario e solamente dopo che sia avvenuta l’erogazione a favore di quest’ultimo da parte dell’assicuratore, le somme erogate si confondono nel patrimonio del beneficiario stesso e potranno essere aggredite dalla Curatela.
  4. Tassazione agevolata: in ossequio alle finalità di tutela delle scelte previdenziali, gli strumenti assicurativi coerenti con tali finalità, godono di trattamenti fiscali sicuramente favorevoli.

Lasciando le altre tipologie di assicurazione, le assicurazioni sulla vita si distinguono in:

  1. assicurazioni in caso morte,
  2. assicurazioni in caso vita,
  3. assicurazioni miste.
  1. Sono assicurazioni in caso morte quelle nelle quali è previsto che l’evento della mortalità di una persona comporti l’erogazione da parte dell’assicuratore di una somma di denaro a favore di un terzo qualificato, quindi, come beneficiario.
  2. Sono assicurazioni in caso vita quelle nelle quali è previsto che al verificarsi di un certo evento (ad esempio al raggiungimento di una certa età del contraente/assicurato oppure dopo un certo lasso di tempo, normalmente compreso tra i 10 e i 20 anni) l’assicuratore debba versare una somma di denaro (che dovrebbe essere pari ai premi versati più il rendimento ottenuto da essi) a favore di qualcuno che, spesso, coincide con il contraente stesso. Il contratto dovrebbe prevedere che, in caso di morte del contraente prima della scadenza della polizza, i premi restino acquisiti all’assicurazione. In realtà, di solito si stipula contemporaneamente una contro-assicurazione che, nel caso ipotizzato, corrisponda una somma equivalente ai premi versati ad un terzo (beneficiario, di solito un erede).
  3. Le assicurazioni miste mettono insieme in un unico contratto un mix tra le due precedenti.

Polizze a tutela delle convivenze di fatto.

Dopo l’entrata in vigore della Legge 76/2016 (cosiddetta Legge sulle Unioni civili) che ha affiancato al tradizionale istituto del matrimonio anche:

  • quello dell’unione civile: che presenta molte analogie col matrimonio stesso ma è possibile sono tra persone dello stesso sesso,
  • e quello della convivenza di fatto: che è possibile sia tra unioni eterosessuali che tra unioni omosessuali, ma è estremamente meno tutelante per le parti coinvolte (specialmente in ambito successorio e di reciproca assistenza previdenziale),

le assicurazioni stanno introducendo delle polizze appositamente studiate per queste nuove realtà e, in particolare, per la convivenza di fatto.

Polizze linked.

Sono strumenti che, sotto la forma di polizze vita in caso vita, consentono di effettuare operazioni di investimento finanziario correlate (linked) a indici finanziari o a valori di quote di fondi o ad altri parametri di riferimento. Attenzione: in relazione alle loro caratteristiche ritenute solo formalmente previdenziali e, in realtà, speculative, la Cassazione ha disconosciuto, a queste polizze, a più riprese, le garanzie di impignorabilità e insequestrabilità.

Per concludere appare opportuno sottolineare che, in ossequio al principio di indipendenza previsto dalle norme deontologiche della professione nonché ai valori etici che impongono al commercialista di essere estraneo ad ogni attività commerciale potenzialmente in conflitto d’interessi col Cliente, lo Studio Gualerzi e Signorini non ha rapporti diretti di collaborazione con alcuna compagnia di assicurazione.

Tuttavia laddove si ravvisasse nello strumento assicurativo di qualunque natura un valido supporto alle esigenze del Cliente i professionisti dello studio saranno a disposizione per affiancare il Cliente stesso nella scelta dei migliori prodotti sul mercato.